Da qualche giorno è nelle sale Il codice del babbuino di Davide Alfonsi e Denis Malagnino. Un film indipendente che si svolge nelle selvagge praterie del west travestite da sobborghi romani
Il film prende spunto da un fatto di cronaca nera effettivamente avvenuto a Guidonia, nei pressi di Roma, nel 2009: una ragazza viene lasciata uccisa nei pressi di un campo rom, dopo essere stata stuprata. Un evento simile è accaduto di nuovo, in questi giorni. Segno che il parallelo che i due registi fanno col selvaggio west non è poi così peregrino.
Infatti il film è costruito come fosse un western di Sergio Leone,
solo che al posto degli indiani ci sono i rom nei loro accampamenti, gli eroi non vanno a cavallo, ma su una scassatissima Citroen perennemente in riserva (intesa come scarsità di benzina, non come luogo dove ammassano gli indiani). Al posto dello sceriffo corrotto ci sono le istituzioni indifferenti, al posto del saloon ci sono i locali con le macchinette mangiasoldi. I nostri eroi sono Tiberio, interpretato da Tiberio Suma, il fidanzato della ragazza uccisa, in cerca di vendetta e Denis, interpretato da uno dei registi, Denis Malagnino, amico di Tiberio, che ha ritrovato il corpo. Vista l’inettitudine delle istituzioni, Tiberio decide di farsi giustizia da solo, nonostante Denis cerchi in tutti i modi di dissuaderlo. Tutto collasserà nel momento in cui entra in scena il boss del quartiere, Il Tibetano.
Il linguaggio del film non è realista, è reale,
nulla viene attutito o reso accettabile. Finalmente un film politicamente scorrettissimo, dove non si usano metafore per reificare il disagio. All’inizio Alfonsi e Malagnino avevano pensato a tre storie intrecciate fra loro, poi il budget a disposizione, ossia zero, li ha costretti a sceglierne una sola che, comunque, riesce a far passare il messaggio che i registi spiegano in maniera più che chiara: “La vendetta non porta mai a nulla di buono, è del tutto inutile e controproducente. Pensiamo sia assolutamente pericoloso oggi parlare di “giustizia privata” e il nostro film, nel suo piccolo, vuole appunto rimarcare l’imprudenza di certi messaggi politici. Del resto in un Paese come il nostro, dove si è privatizzato tutto, è quasi comprensibile che la gente ricerchi giustizia privata, ma ci teniamo a sottolineare che questo comportamento è quanto di più deleterio possa accadere, la fine di ogni comunità civile”.
Dunque un film cattivissimo. Finalmente, diciamo noi, perché, come spiegano i registi: “Il buonismo è la metastasi della creatività e purtroppo, oggi, pochi registi scelgono di girare storie realmente cattive, ma questa è un’altra storia”.