Incontro molto interessante quello di ieri con la regista Susanna Nicchiarelli, intervenuta per la rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi organizzata da Apulia Film Commission. La regista, insieme a Luigi Abiusi e a Cristina Piccino (Il Manifesto), ha parlato a lungo del suo ultimo film, Miss Marx (qui la recensione), e ha risposto alle domande e alle curiosità degli spettatori.
Leggi anche la recensione del film Nico, 1988, sempre scritto e diretto da Susanna Nicchiarelli
Se non hai avuto la possibilità di seguire l’incontro, puoi recuperarlo andando sul canale YouTube di Apulia Film Commission.
Miss Marx: Susanna Nicchiarelli ci parla del film
Il tuo cinema ha assunto una temporalità un po’ diversa rispetto al tuo cinema precedente
Assolutamente sì. Né Nico né Miss Marx hanno una trama tradizionale, hanno delle regole tradizionali, perché dopo il mio secondo film (ndr: La scoperta dell’alba, 2013), che non era andato molto bene, avevo capito che dovevo liberarmi da una trama troppo costruita, una trama da cui mi sentivo anche un po’ imprigionata. Quello che avevo dire era proprio negli spazi attraverso gli eventi, non stava negli eventi stessi. Questa ossessione per far succedere le cose, molto comune soprattutto nelle serie tv, era una cosa che mi bloccava molto, che non faceva venir fuori quello che di più interessante avevo da dire. Con Nico ho deciso di strutturare in modo molto libero la sceneggiatura e alla fine ho fatto la stessa scelta anche con Miss Marx.
Su Eleanor Marx avevo un materiale vastissimo, di discorsi, di lettere, molto lucide, chiare; Eleanor era una comunicatrice formidabile, era famosa per i suoi comizi e questo si sentiva molto nelle lettere e nei discorsi che ho scelto di mettere nel film e di far dire all’attrice. Ho quindi deciso di costruire il film in questo modo, molto più libero.
Il cinema spesso segue le regole dei manuali di sceneggiatura americani, regole che conosco molto bene, e che sono tutte regole da romanzo ottocentesco; il cinema americano più tradizionale ha delle regole ferree, molto diverse da quelle del romanzo del ‘900. Per esempio, l’idea di un protagonista inetto, passivo, che non agisce è una cosa rarissima nel cinema americano (a parte le eccezioni, come Fuori orario di Scorsese). La regola fondamentale del cinema americano è che il protagonista è attivo e porta avanti la storia; poi ci sono tante altre regole, che vanno conosciute, perché il pubblico è abituato a quelle regole. Quando vai contro a questi automatismi, sai che stai spiazzando il pubblico, perché tutti noi siamo cresciuti con quei film, con quei modelli. E’ molto divertente disattendere quei tempi, andare contro tempo.
Anni fa ho lavorato a una serie e le regole sono proprio quelle base dell’industria culturale: il pubblico non deve pensare, non deve avere spazio per pensare, non deve avere dubbi, tempo di respirare. Questo però non mostra appieno il valore artistico del il cinema, valore che sta anche nel disorientamento che un film può creare, un disorientamento che provoca una riflessione.
Il mio modo di fare cinema è sicuramente cambiato, perché si cresce e si acquista consapevolezza su quello che si ha da dire e su quello che non si vuole fare. Come disse una volta Nanni Moretti “se capite ciò che non volete fare, già avete capito tanto”. Io sono cresciuta anche come spettatrice, so ciò che non voglio vedere o fare. In altri casi, invece, si cambia più per istinto. Il rapporto con la messa in scena (dove metti la macchina da presa, come dirigi gli attori) è una cosa che cambia col tempo. Dal punto di vista della messa in scena quello che mi dà fastidio è forzare l’identificazione, non mi piacciono i primi piani molto stretti, non mi piace trascinare il pubblico nell’identificazione, perché così si fanno cose molto più banali. Mi piace mantenere una certa distanza dai personaggi, in modo che l’adesione al personaggio si acquisti piano piano. Penso che sia necessario mantenere una certa distanza, per lasciare un po’ di spazio anche all’ironia; se stai troppo addosso ai personaggi non c’è quello spazio con cui offri al pubblico anche la possibilità di sorridere delle cose che stai raccontando. Forzare l’identificazione, sia nella recitazione che nella posizione della macchina da presa, è un meccanismo del cinema commerciale, che a me interessa meno.
Com’è fare oggi, nel nostro paese, cinema con una sensibilità politica, orientata a sinistra
Penso che a me il cinema non interesserebbe se non fosse politico. Il cinema è sempre politico, perché l’obiettivo è prendere delle persone, metterle insieme in una sala e farle riflettere. Io non vengo da una famiglia di tradizione comunista, anzi, mio padre è un imprenditore liberale, ferocemente anticomunista, molo attaccato al suo privilegio sociale. Io sono cresciuta in maniera diversa, con idee diverse, per tanti motivi. Per me essere di sinistra significa provocare un pensiero attorno alle contraddizioni della società, ma anche cercare di raccontare la società al di là dei cliché. Spesso l’intrattenimento è consolatorio, le persone ci si identificano e si consolano; ci sono tanti film che parlano di ingiustizia, film apparentemente di sinistra, che sono però consolatori per la classe borghese, anche perché il cinema si rivolge sempre prevalentemente a una classe già privilegiata. Io penso, invece, che se ti rivolgi a un classe borghese dovresti disturbarla, dovresti indicare le contraddizioni, il pubblico non deve uscirne tranquillo.
Stesso discorso vale anche per come racconto le storie di donne. Bisogna raccontare le storie delle donne, tirare fuori anche gli aspetti di noi stesse che ci disturbano, che vorremmo nascondere. La cosa più bella che i film possono fare, più che essere schierati, è far pensare le persone con la propria testa. Io non faccio film ideologici, ma spero di dare degli strumenti e di lasciare questioni aperte. Anche Miss Marx lascia molte questioni aperte. Il film non dà soluzioni, pone solo problemi.
Quando hai tanto materiale, la voglia di mettere tutto c’è, ma qui che sta l’errore. Quando si parte dalla realtà viene la voglia di mettere tutto, perché tutto ti sembra importante e a quel punto fai un film dove c’è tutto, ma in realtà niente. E’ qui che entra in gioco lo sguardo del regista, che sceglie cosa inserire. Forse il criterio nello scegliere dipende dalla vicinanza che senti al personaggio. C’era qualcosa nell’emotività di questa donna che mi colpiva, avevo l’impressione che l’infanzia di questa donna non fosse mai finita. Io mi sono attaccata a delle cose emotive che mi univano a lei. Quando leggi la vita di una persona ci sono cose che ricordi, altre che dimentichi. Con Romola (ndr: Romola Garai, interprete di Eleanor Marx) abbiamo letto tutto e ci siamo affezionate a questo personaggio. La maggior parte dei consigli che mi hanno dato gli attori, molto preparati, sono stati importantissimi. Per esempio, Romola è stata la prima a suggerire di non metterle il busto, perché una donna come Eleanor era contro. Romola è stata molto generosa anche nel raccontare il suo corpo, molto attenta.
Lavorare su materiale reale è davvero molto bello, perché in tutti i settori (sceneggiatura, costumi etc.) c’è un lavoro di documentazione grandissimo, si fanno ricerche ed è molto gratificante poi stare su un set dove tutti stanno lavorando alla stessa cosa.
Quando hai svolto le tue ricerche, hai scoperto qualcosa che ha minato alcune tue convinzioni o ha modificato il tuo essere donna, artista di sinistra?
Tutta la storia di Eleanor Marx mi ha messo alla prova. E’ una storia che disturba la femminista che è in te, che ti fa paura, ti spaventa. Eleanor era autonoma economicamente, non era sposata, non aveva figli, era in gamba, eppure rimane per tutta la vita con Edward, un uomo che la tradisce. Spesso mi veniva da pensare che se anche una donna come lei non voleva uscirne, allora non c’è speranza. Poi ho pensato che un modo deve esserci; alla fine mi sono detta che, anche se in certi momenti la storia di Eleanor mi faceva pensare che non c’è speranza per nessuna di noi, ognuno di noi fa un pezzetto e poi si va avanti, si continua a lottare.
Quello, però, che riscontravo nel leggere le sue lettere non era debolezza; lei quella vita se l’era scelta, quell’uomo se l’ero scelto e se l’era anche tenuto stretto. La sua non era affatto debolezza, forse più contraddizione. Nelle lettere si capisce che era perfettamente consapevole della contraddizione vivente che era lei stessa. Sicuramente certe cose la facevano soffrire, ma questo non significa che fosse una vittima, non era costretta da niente, se non dall’amore, a rimanere con quell’uomo.
La musica del film
La musica che ho scelto di inserire nel film, una musica punk, anche poco conosciuta, mi serviva per raccontare qualcosa di duro. Volevo che fosse quasi percepita come una violenza. La mia volontà era creare una contraddizione, anche attraverso la musica.
Il rapporto con l’attrice protagonista
Romola era molto precisa, molto attenta, si era studiata tutte le biografie e insieme abbiamo analizzato tutti gli aspetti di Eleanor, abbiamo lavorato molto sui costumi, su come vestire Eleanor. Poi ci sono stati dei momenti in cui lei mi ha suggerito delle battute o ha voluto cambiare alcune scene; per esempio, mi chiese di piangere durante la scena in cui legge la lettera, sdraiata, mentre si tinge i capelli. Io non ero molto d’accordo e non avevo intenzione di mantenere quella scena così durante il montaggio; invece, ho poi scoperto che la scena funzionava moltissimo così.
Lei era entrata in simbiosi con il personaggio reale, storico e tante volte i suggerimenti che mi dava erano in quella direzione. Anche per questo è stato molto difficile lavorare a un film come Miss Marx; il problema di Eleanor Marx è che studi la vita di una persona così in gamba che poi a un certo punto si uccide. Mentre leggi le lettere cerchi questo, questa autodistruzione, cerchi di capire quando e come mai ha deciso di uccidersi. Questo è stato molto faticoso, sia per me che per lei. Anche per questo è stato bello girare la scena del ballo, perché quella scena ci mostrava l’energia del personaggio, indipendentemente poi dalla sua fine, e ci ha aiutato molto. E’ sempre doloroso, faticoso, fare un film su una persona che alla fine del film si uccide.