Il film, Mektoub, My Love, del regista franco tunisino Abdellatif Kechiche esce 4 anni dopo La vita di Adele, che vinse la Palma d’oro a Cannes.
Mektoub, che in arabo significa “destino”, è una sorta di éducation sentimentale della durata di ben 180 minuti, di cui seguiranno altre due parti. È tratto molto liberamente da La blessure, la vraie, romanzo di François Bégaudeau, stesso autore di Entre les murs dal quale è stato tratto un altro film francese di successo, La classe.
Amin è uno studente di medicina aspirante fotografo, aspirante sceneggiatore cinematografico. Durante le vacanze torna da Parigi al suo paese natale, una piccola località di pescatori nel sud della Francia, dove i genitori hanno un ristorante tunisino. Parte con l’intenzione di scrivere il soggetto per un film, ma è distratto dalle giovani e bellissime bagnanti.
Sembra un po’ poco per un film di tre ore ma, come abbiamo detto, la storia è, di fatto, l’educazione sentimentale di Amin e la macchina da presa spesso indugia a lungo sui volti dei ragazzi
Oddio, non solo sui volti, se dobbiamo dar credito a Cristina Piccinno, erede del grande Roberto Silvestri nel curare la sezione cinema del quotidiano il Manifesto: “Filmare ad altezza di natiche (femminili), è un punto di vista come un altro, si dice che sia un «fantasma» maschile. E se Truffaut diceva che il mondo si misura con le gambe delle donne, Kechiche lo riconduce a quella forma tonda”.
Ma a questa impressione che, a onor del vero, non è solo di Cristina Piccinno, il regista si ribella: “Non è vero, non c’è niente di macho nel film. Anzi descrivo donne forti, potenti e coraggiose. Al 70 per cento ho mostrato volti e solo alcuni corpi nudi“.
Una cosa sulla quale tutti concordano è la sorprendente naturalezza dei dialoghi. Kechiche la spiega così: “Molti sono attori che appaiono per la prima volta sullo schermo, altri no, e per ottenere quella scioltezza abbiamo solo lavorato molto tra prove, controprove e dibattiti“.
Quindi un classico film da nouvelle vague, dove si discorre tanto e non succede nulla.
Poi non è finita; il Jean-Luc Godard del cinema moderno ci ha promesso altre due parti o “canti”, come li chiama lui. Un’alternativa a Terrence Malick, che non scherza in quanto a film lunghi, spesso inutilmente lunghi.