Appena terminato l’ultimo film del regista catalano Lluís Miñarro, ambientato nell’Iraq occupato dall’esercito nord americano
Ci sono modi diversi di attualizzare le vecchie storie. Il modo che, forse, conosciamo meglio, è quello adottato dalla Disney, che massacra praticamente tutto salvo la storia. L’altro è quello di stravolgere la storia, ma lasciare intatto l’obiettivo, il “messaggio”, che si era proposto l’autore. Un unico, fulgido, esempio di questo secondo modo di rilettura è Brazil, di Terry Gilliam, rilettura stupenda di 1984 di George Orwell. Il film di Miñarro è appena finito, quindi non l’abbiamo visto, ma riteniamo che Love me not faccia parte di questa secondo modo di rileggere una storia.
La storia è quella di Salomè, uno dei migliori drammi scritti da Oscar Wilde, già portato al cinema varie volte. Fra i film realizzati dalla pièce wildiana non possiamo non ricordare la versione mitica di Carmelo Bene. E se crediamo che la realizzazione di Miñarro sia fedele al testo, nonostante sia ambientato pochi anni fa, è perché abbiamo letto quest’intervista su Alias del Manifesto: Spettacolo e anarchia: il cinema dell’utopia. Inutile dire che consigliamo la lettura dell’intera intervista; per i più pigri ritagliamo i brani che ci sembrano più significativi. Pochi, giusto per stimolare a leggere l’intervista completa.
Intanto diciamo che Salomè sarebbe una soldatessa ossessionata da un prigioniero del famigerato carcere di massima sicurezza di Abu Ghraib, il Giovanni Battista della situazione, da alcuni considerato un terrorista, da altri un profeta.
Si parte proprio dall’inizio, ossia dove verrà presentato il film, e cominciano subito le difficoltà: “L’anteprima, teoricamente, avrà luogo in un festival. Il problema è che i festival sono sempre più avvolti in se stessi, arroccati in un inquietante conservatorismo. Alcuni programmatori, ad esempio, hanno rilevato in Love me not un eccesso di «sovversione» e di – udite, udite! – «creatività». Mi pare allarmante che molti operatori culturali del 2018 incentivino le proposte più rassicuranti, anche sotto il profilo dell’inventiva. Viviamo in un’epoca che premia più che mai l’autocensura, il moralismo di facciata. Per quanto possa sembrare paradossale, un film come Love me not, che non offre una visione univoca del mondo, che vuole scavare nel non-detto, può venire accolto con diffidenza anche nel circuito dei festival“.
L’operazione di far rivivere il dramma biblico proprio in Iraq, ovviamente, non è un caso: “Mi interessava la possibilità di indagare gli spazi di Abu Ghraib, che a differenza dei campi di concentramento nazisti erano stati smantellati senza lasciare traccia. Un orrore sottratto allo sguardo e quindi alla memoria“.
Infine la poetica del regista, che lasciamo, a mo’ di conclusione: “Non posso fare a meno di costruire un’immagine senza investire nelle sue pieghe gli ardori, le tensioni, le ossessioni che mi hanno accompagnato per tutta la vita. Salomè mi parla anche di Caravaggio, di Gustav Klimt, di Richard Strauss, di Carmelo Bene. La bellezza rappresenta forse la nostra unica via di fuga. L’unica speranza rimasta“.