Intrattenimento o realtà? Hollywood fa i conti con la Seconda Guerra Mondiale, anche al cinema
I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives)
Regia: William Wyler; soggetto: dal romanzo in versi Glory for Me di Kantor MacKinlay; sceneggiatura: Robert E. Sherwood; fotografia (b/n): Gregg Toland; scenografia: Perry Ferguson, George Jenkins; costumi: Irene Sharaff; colonna sonora: Hugo W. Friedhofer; montaggio: Daniel Mandell; interpreti: Fredric March (Al Stephenson), Myrna Loy (Millie Stephenson), Dana Andrews (Fred Derry), Teresa Wright (Peggy Stephenson), Virginia Mayo (Marie Derry), Cathy O’Donnell (Wilma Cameron), Harold Russell (Homer Parrish), Dorothy Adams (sig.ra Cameron), Don Beddoc (sig. Cameron), Walter S. Baldwin (sig. Parrish), Roman Bohmen (Pat Derry); produzione: Samuel Goldwyn/RKO; origine:USA- 1946; durata: 172′
Boone City, immaginaria cittadina di provincia, nel 1945 tre reduci tornano a casa dal fronte: il soldato semplice Homer Parrish, mutilato di entrambe le mani (Russell era un vero mutilato di guerra, attore dilettante), Al Stephenson (March), il più anziano ed ex caporale e l’ufficiale Fred Derry (Andrews), integerrimo pilota militare. Homer ritrova la famiglia e la fidanzata, ma non è più l’uomo di prima e non vuole accettare la pietà dei suoi cari. Al riabbraccia la moglie e i due figli, torna nella banca di cui era funzionario e, nonostante il parere contrario della direzione, si batte per concedere prestiti agevolati ai reduci come lui. Fred scopre che la frivola moglie (Mayo), conosciuta e sposata poco prima della partenza, lo tradisce. Riprende a lavorare nel grande magazzino in cui era impiegato ma non resiste a lungo. Intreccia una relazione con la figlia di Al, ma il padre vi si oppone. Vaga nelle periferie e si ritrova in un “cimitero di aerei”. Sale nella cabina di un bombardiere in disarmo, dove lo trova, in preda alle allucinazioni, l’appaltatore delle demolizioni che gli offre un lavoro. Homer comprende che Wilma non ha pietà di lui, ma lo ama davvero. Si sposano.
Da sempre il cinema americano è stato, fino a quel momento, uno spettacolo di evasione. Anche le biografie o le storie tratte dalla realtà venivano edulcorate, per non turbare il pubblico. Negli Stati Uniti appena usciti dalla Seconda Guerra Mondiale è giusto dimenticare, rimuovere il passato? Non per Samuel Goldwyn. Questo produttore hollywoodiano, tra i fondatori della MGM, decide di affrontare di petto la questione del reinserimento dei soldati nella società civile. Dopo aver acquistato i diritti di un romanzo in versi di Kantor MacKinley, lo affida alle mani di Robert E. Sherwood perchè prepari la sceneggiatura e chiede a William Wyler – già vincitore di 6 Oscar con il film di propaganda La Signora Miniver del 1942 – di dirigere la storia. Nel cast di attori Wyler inserisce un vero reduce della guerra, Harold Russell, da lui apprezzato in un documentario e per la fotografia si avvale di Gregg Toland (Quarto Potere), i cui giochi di specchi si fondono perfettamente con la narrazione, soprattutto nella scena dell’allucinazione che colpisce il pilota Fred all’interno della carcassa dell’aereo.
A proposito della pellicola si è parlato impropriamente di neorealismo all’americana. Essa non difetta di impegno civile, introspezione psicologica e di fedeltà nella riproduzione delle reali difficoltà dei soldati tornati in patria (il regista si vanta di aver vestito i suoi attori ai grandi magazzini) ma il lieto fine consolatorio resta inevitabile. Goldwyn, a dispetto delle opinioni del regista, vuole una storia commovente, non così deprimente tuttavia da allontanare gli spettatori. L’Academy lo premia con l’Irving Thalberg Memorial Award e I migliori anni della nostra vita trasforma le 8 nomination della vigilia in 7 Oscar, per il miglior film, la regia, l’attore protagonista Fredric March, sceneggiatura originale, montaggio e colonna sonora e l’attore non protagonista Harold Russell. I giurati sono così preoccupati che il reduce mutilato non vinca, che il giorno prima della cerimonia gli conferiscono un Oscar speciale “per aver dato coraggio e speranza ai suoi commilitoni”. In effetti il veterano avrebbe dei temibili concorrenti, del calibro di Claude Rains, marito nazista di Ingrid Bergman in Notorius- L’Amante perduta di Hitchcock. A sorpresa invece Russell, commosso, si ritrova, caso unico nella storia dei premi, con due statuette vinte per lo stesso film. Mastica amaro l’ignorato Cary Grant che nel buio della sala si lascia scappare: “Datemi un candelotto di dinamite”.
Rivisto oggi, I migliori anni della nostra vita può apparire invecchiato ma il suo successo ha aperto la strada a film che tratteranno l’argomento bellico con vigore ancora maggiore, soprattutto in seguito al conflitto in Vietnam, di cui avremo modo di riparlare all’interno della rubrica. A buon diritto può quindi fregiarsi del titolo di cult-movie. Voto 7,5 su 10.