“Vogliam volare su un mare di champagne e gridare tutt’intorno che, da che mondo è mondo, né donna né uomo è mai stato felice quanto lo siamo noi”. Leslie Caron (Gigi)
Gigi (Id.)
Regia: Vincente Minnelli; soggetto: da un romanzo breve di Colette; sceneggiatura: Alan Jay Lerner; fotografia (Metrocolor, Cinemascope): Joseph Ruttenberg; scenografia: William Horning, Preston Ames, Henry W. Grace; arredamento: Keagh Gleason; costumi e direzione artistica: Cecil Beaton: colonna sonora: Frederick Loewe (parole di Alan Jay Lerner); adattamenti musicali: Andrè Previn; montaggio: Adrienne Fazan; interpreti: Leslie Caron (Gigi), Maurice Chevalier (Honorè Lachaille), Louis Jourdan (Gaston Lachaille), Hermione Gingold (signora Alvarez), Eva Gabor (Liane), Isabel Jeans (zia Alicia); produzione: Arthur Freed per MGM; origine: USA – 1958; durata:119′
La Trama
Parigi. Siamo nel pieno della cosiddetta belle époque, la giovane provinciale Gigi (Caron) viene affidata alle cure della nonna e della zia (Gingold e Jeans), ex mondane di lusso, affinchè possa diventare una perfetta cortigiana, degna di essere mantenuta da un raffinato gentiluomo, secondo la tradizione. La ragazza ha un’indole sbarazzina, come si conviene alla sua età e una certa timidezza naturale che le impedirà di commettere imprudenze. Gigi non comprende il motivo di tante attenzioni e neanche perchè sia accompagnata a fare spese dall’attempato Honorè Lachaille (Chevalier), che non le risparmia garbate allusioni erotiche. Ingenua com’è la fanciulla non sospetta che la serie di lezioni sul galateo, su come stare a tavola, camminare, vestirsi e conversare sia un addestramento per prepararla all’incontro col figlio del ricco Honorè, il galante Gaston (Jourdan). Per lui Gigi è una ragazzina e soltanto quando gli apparirà come una donna elegante e seducente comprenderà l’intento del padre. Gaston però si innamora di Gigi e quando le due mondane gli propongono di prenderla sotto la sua protezione, come amante ufficiale, s’indigna, così come Gigi, diventata una giovane donna fiera e consapevole. Sembra che le strade dei due debbano dividersi, ma Gaston è troppo innamorato di Gigi, che si accorge di ricambiarlo. I due decidono di sposarsi: Gigì non sarà una mantenuta qualunque, ma la moglie dell’uomo che ama.
Il Commento del Redattore
Sette anni dopo il successo di Un americano a Parigi il regista Vincente Minnelli torna alla ribalta con un altro splendido musical targato MGM. Dopo la vittoria del Golden Globe, il film riceve nove candidature ai premi Oscar e le trasforma in altrettante statuette, infrangendo il record detenuto da classici come Via col Vento, Da qui all’eternità e Fronte del Porto, tutti vincitori di otto Oscar. Gigi diventa la pellicola più premiata di sempre, anche se questo primato durerà solo un anno, vincendo per il miglior film, la regia,la sceneggiatura, la fotografia, la scenografia, i costumi, la canzone, la colonna sonora e il montaggio. Leslie Caron non è più l’esordiente scoperta da Gene Kelly, ma è piena di freschezza e talento, capace di reggere il peso del film con l’aiuto di comprimari di prim’ordine come la britannica Hermione Gingold e il vecchio leone Maurice Chevalier, monumento vivente del cinema musicale che l’Academy gratifica con un Oscar onorario. Tra gli interpreti di Gigi l’anziano chansonnier è l’unico premiato: lo splendore sfarzoso del musical offusca le interpretazioni degli attori.
La buccia brillante della commedia, allietata da numeri musicali di prim’ordine e dai meravigliosi costumi del grande Cecil Beaton non deve ingannare: il cinismo si annida in ogni svolta della trama, così come una visione della femminilità che oggi definiremmo antiquata. Solo il matrimonio consente alla protagonista di sfuggire al mondo sfavillante e crudele della prostituzione d’alto bordo. Il regista, vincitore dell’unico Oscar della sua carriera, passa con abilità rutilante da un ambiente suggestivo all’altro per formulare un giudizio sulla vacuità del bel mondo celato abilmente sotto la superficie scintillante e fiabesca del film. Minnelli sfrutta la profondità di campo consentita dal formato Cinemascope e in ogni inquadratura allo spettatore sembra di entrare nello schermo, su di un proscenio curato in ogni minimo particolare.La sceneggiatura di Lerner, in grado di sfiorare gli aspetti più scabrosi della vicenda, costruisce questa variante sul tema del Pigmalione di George Bernard Shaw senza risvegliare la severa censura prevista dal rigido Codice Hays, in vigore per non turbare il delicato equilibrio delle famiglie, intrise di perbenismo e puritanesimo nell’America di Eisenhower. La citazione dell’opera letteraria è tutt’altro che casuale: Lerner e Loewe infatti curano al tempo lo spettacolo teatrale My Fair Lady, tratto dall’opera dell autore irlandese, di cui però cederanno i diritti alla Warner Bros, solo qualche anno più tardi.
Voto 7,5 su 10