L’ultimo imperatore (The Last Emperor)
Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto: dall’autobiografia di Pu Yi Da imperatore a cittadino comune e The Last Emperor di Edward Behr; sceneggiatura: Mark Peploe, Enzo Ungari, Bernardo Bertolucci; fotografia (Eastmancolor): Vittorio Storaro; scenografia: Ferdinando Scarfiotti, Osvaldo Desideri, Bruno Cesari; costumi: Gong Zhanjing, Sun Huanxiang (con James Acheson e Ugo Pericoli); trucco: Franco Giannini; colonna sonora: Ryuichi Sakamoto, David Byrne, Cong Su; montaggio: Gabriella Cristiani; interpreti: John Lone (Pu Yi adulto), Joan Chen (Wan Rong), Peter O’Toole (Reginald Johnston), Ying Ruochen (Jin Yuan), Victor Wong (Chen Pao Shen); , Denis Dun (Big Li), Ryuichi Sakamoto (Amakasu), Maggie Han (“Gioiello d’Oriente”), Wu Jun Mei (Wen Hsiu), Cary Hiroyuki Tagawa (Chang), JAde Go (Ar Mo), Fumihiko Hikeda (Yoshioka), Richard Woo (Pu Yi a 3 anni), Tijiger Tsou (Pu Yi a 8 anni), Wu Tao (Pu Yi a 15 anni), Fan Guang (Pu Chieh), Lisa Li (l’imperatrice madre), Hideo Takamatsu (generale Ishikari), Hajime Tachibana (traduttore giapponese), Basil Pao (principe Chun), Jian Xireng (lord ciambellano), Chen Kaige (capitano della Guardia Imperiale); produzione: Jeremy Thomas per Yanco Film/Tao Film/Recorded Picture Co./Screen Frame/AA Soprofilm; origine: Cina, Italia, Gran Bretagna – 1987; durata: 163′ .
Trama
Cina, inizi del ‘900. Separato dalla madre alla tenera età di 3 anni, il fanciullo Pu Yi, ultimo esponente della dinastia Ching vive dal 1908 nella Città proibita di Pechino, capitale dell’Impero. L’avvento della repubblica, nel 1912, non muta la condizione del giovane imperatore, segregato all’interno di una corte corrotta e avida di potere, costituita da adulatori e falsi consiglieri. A 15 anni il ragazzo viene affidato ad un istitutore scozzese, Reginald Johnston (un flemmatico Peter O’Toole) che lo porta a scoprire una realtà diversa da quella che aveva sempre immaginato. Veste all’occidentale, impara l’inglese e si sposa due volte. Nel 1924 l’invasione della Cina da parte delle truppe giapponesi lo costringe all’esilio. Si abbandona a una vita dissoluta, indegna di un re. Si lascia ingenuamente convincere a consegnarsi ai giapponesi che lo nominano monarca dello stato fantoccio del Manchiukuo (in verità un protettorato del paese del Sol Levante su territorio cinese, corrispondente alla Manciuria). Spera ardentemente di ripristinare la dinastia, grazie alla gravidanza della moglie Wan Rong, ma scopre che il nascituro è il frutto di una relazione extraconiugale che ella ha avuto con l’autista della coppia. La moglie impazzisce, i sovietici invadono la Cina e Pu Yi diventa loro prigioniero. Nasce la Repubblica Popolare. Dopo cinque anni di carcere è consegnato ai suoi connazionali, che lo internano in un campo di prigionia per sottoporlo a un durissimo programma di rieducazione, che durerà un decennio. Dal 1959 l’ex imperatore assiste al fermento provocato dalle avvisaglie di quella che, negli anni ’60, sarà la “rivoluzione culturale” di Mao Tse Tung, volta ad instaurare l’ennesimo regime. Pu Yi, pur sedotto dalla dottrina del leader, non resta insensibile, prova compassione per i sostenitori dei partiti sconfitti e difende per questo il direttore del campo di prigionia, che l’aveva sempre trattato con rispetto. Trova un lavoro come giardiniere all’Orto botanico di Pechino. Cura le piante di quella che un tempo era stata la sua reggia e riscopre come visitatore i luoghi in cui è cresciuto. Un drappello di turisti si aggira nel palazzo imperiale, che adesso è un museo. Pu Yi scompare alla vista dello spettatore.
Dalla delusione all’Oscar
Nel 1984 Bernardo Bertolucci viene invitato negli USA per dirigere un film con protagonista Jack Nicholson. Il progetto tuttavia naufraga e il regista italiano si ritrova depresso e sconfortato. Per allontanarsi il più possibile dalla cultura occidentale che tanto lo ha bistrattato, decide di interessarsi all’estremo oriente. In particolare lo colpisce la biografia di Pu Yi, ultimo imperatore della Cina, che non a torto definisce “un uomo sequestrato dalla Storia: quella di Pu Yi è la storia della metamorfosi di un drago diventato farfalla”. Il produttore Jeremy Thomas fa il giro degli studios hollywoodiani, in cerca di fondi, per aiutarlo ad inscenare questa peculiare vicenda, trovando le porte chiuse. Si rivolge allora a un gruppo di banche straniere e anche agli italiani Mario e Vittorio Cecchi Gori, nonchè alla Rai, mettendo insieme un budget di 25 milioni di dollari. Partono le riprese e, a sorpresa, nel 1985 la Repubblica Popolare Cinese consente per la prima volta a una troupe occidentale di girare all’interno dell’antica Città proibita, a Pechino. Le riprese, tra Cina e Italia, durano sei mesi e prevedono quasi 20.000 comparse e oltre 9000 costumi: nonostante questo dispiego di mezzi il film viene completato senza neanche usare per intero i fondi a disposizione. All’uscita L’ultimo imperatore raccoglie consensi, con qualche riserva, persino in patria. Scrive all’epoca il celebre critico Morando Morandini: “(L’ultimo imperatore ndr.) È il film più armonioso di Bertolucci, il più equilibrato e il meglio costruito che abbia fatto, ma anche il più accademico, il più liscio.” Il 23 gennaio 1988 il film conquista 4 Golden Globe (miglior film drammatico, regia, sceneggiatura, colonna sonora) e, sull’onda dei buoni incassi – 44 milioni di dollari solo negli Stati Uniti – si presenta allo Shrine Auditorium di Santa Monica nuovo teatro scelto per l’occasione (aveva già ospitato la notte delle stelle nel 1946) con 9 nomination, più di tutti gli altri concorrenti scelti dall’Academy..
Il racconto del Redattore
Gli avversari del regista italiano non sono in verità irresistibili: nella cinquina dei finalisti troviamo Attrazione Fatale dell’ex pubblicitario Adrian Lyne, con l’amante di una notte (Glenn Close, la “donna più odiata d’America”) che diventa implacabile erinni in cerca di vendetta nei confronti di un procuratore legale sposato. Quest’ultimo è Michael Douglas che, grazie alla sua proverbiale fortuna, vince come miglior attore protagonista ma per Wall Street di Oliver Stone. Poco importa che il suo personaggio sia odioso e stereotipato: la sua prova da interprete è vigorosa e il crollo della Borsa del 1987 conferisce all’opera del mercuriale regista il fascino di un’oscura profezia. Due film, pur inclusi tra i magnifici 5, non vincono nulla: Anni ’40 dell’inglese John Boorman e Dentro la notizia di James L. Brooks. Il primo è uno spaccato dell’Inghilterra negli anni più duri della Seconda Guerra Mondiale (esilarante il bambino che, davanti alla distruzione della sua scuola da parte dei bombardieri della Luftwaffe esclama esultante: “Grazie Adolf!” ), mentre il secondo narra di un triangolo amoroso che coinvolge una dinamica produttrice (Holly Hunter) e due giornalisti: il belloccio Wiliam Hurt, anchorman di successo e il bruttino Albert Brooks. Và meglio a Stregata dalla luna, commedia cult con la piacente vedova Loretta Castorini innamorata del fratello del suo mammone promesso sposo, Ronny Cammareri, il quale manda a segno 3 delle 6 candidature ricevute: vince per la sceneggiatura, per l’attrice non protagonista Olympia Dukakis, madre di Loretta che apostrofa la figlia con un rude:“Stai buttando la tua vita nel cesso”, nonchè soprattutto per la quarantaduenne protagonista, la cantante Cher cui il ruolo di vedova senza remore calza come un guanto (“Una ragazza può aspettare per anni l’uomo giusto, ma ciò non impedisce che intanto possa divertirsi un mondo con quelli sbagliati”). Affascinati, i giurati dell’Academy premiano questa star sfrontata, che si presenta alla cerimonia con un vestito trasparente che poco lascia all’immaginazione, al braccio di un fidanzato vent’anni più giovane di lei. Attore non protagonista dell’anno è finalmente il grande Sean Connery, poliziotto irlandese duro e puro che perde la propria vita allo scopo di fermare Al Capone, affiancando Elliott Ness – Kevin Costner nell’impresa; il film è Gli Intoccabili, ai vertici del cinema d’azione di Brian De Palma. Restano, come spesso accade, le omissioni clamorose dell’annata: oltre a Radio Days di Woody Allen, che raccoglie due misere segnalazioni e The Dead, ispirata trasposizione di James Joyce ed estremo lavoro del maestro John Huston, quella imperdonabile colpisce ancora una volta il geniale Stanley Kubrick, che vede ignorato il sarcastico e iperrealista Full Metal Jacket. Nuoce al film forse il confronto con Platoon, ottimo ma irruento e passionale, al contrario del lungometraggio di Kubrick, requisitoria impassibile e stilizzata contro la guerra: una nomination alla sceneggiatura è tutto quello che raccoglie. Le accuse contro il regista sono le solite: lontananza dall’America (quindi dalla realtà) e una visione pessimistica e misantropica della natura umana. Resta a mani vuote anche il solito Steven Spielberg il quale con L’impero del Sole assaggia anche l’insuccesso al botteghino.
Sgombrato il campo da questi ultimi possibili avversari la scena è tutta per L’ultimo imperatore che trasforma tutte le nomination in Oscar, per un totale di 9 statuette, diventando il terzo film più premiato della storia, dopo Ben Hur e West Side Story, alla pari di Gigi di Vincente Minnelli che tra questi è anche l’unico, insieme al film di Bertolucci, ad realizzare l’en plein rispetto alle candidature ricevute. Oltre al film e alla regia vengono premiate la sceneggiatura di Mark Peploe, che aveva già scritto per Antonioni Professione Reporter, la fotografia del maestro italiano Vittorio Storaro (ed è il terzo Oscar per lui, dopo quelli ottenuti con Coppola e Beatty), una terna tutta italiana di scenografi (Scarfiotti-Cesari-Desideri), il duo inglese di tecnici del suono, Billy Rowe (The Rocky Horror Picture Show) e Ivan Sharrock, il costumista, anche lui britannico, James Acheson (tornerà anche lui a vincere altre 2 volte), la direttrice del montaggio pugliese Gabriella Cristiani e l’eccentrico trio di compositori della colonna sonora: la rockstar ex leader dei Talking Heads David Byrne, cui si affiancano il nipponico Ryuichi Sakamoto – anche attore nel film – e il cinese Cong Su. Con questo film, del quale è possibile trovare anche una versione in 3D per celebrare il trentennale della sua uscita, Bertolucci (in alto il filmato originale della vittoria) si conferma “cavaliere di un cinema che non abdica alle sue ambizioni” (Paolo Mereghetti)