La maschera del demonio, il primo film diretto da Mario Bava, indiscusso maestro dell’horror italiano ben prima che Dario Argento rivendicasse il titolo, è una gradita sorpresa; vediamo perché.
Quando un genere si definisce “all’italiana” si parte già col sospetto che non sia un granché perché, si sa, noi italiani siamo noti cialtroni e le cose per bene non riusciamo a farle. Per quanto mi definirei più internazionalista che nazionalista, mi permetto di dissentire. La Commedia all’italiana ha collezionato una serie interminabile di film divertenti e, allo stesso tempo, dissacranti, satirici ed efficaci nel denunciare e censurare i nostri difetti. Per il western all’italiana o, ancor peggio, gli spaghetti western, mi basta ricordare un regista: Sergio Leone.
Anche l’horror all’italiana vanta i suoi maestri, uno è il celebratissimo e notissimo, anche a livello internazionale, Dario Argento, l’altro è il bistrattato, ma non meno bravo, Mario Bava e, a dirla tutta, lo preferisco al primo. Dario Argento è uno che per far paura fa “Bu!” all’improvviso e poi finisce lì; Mario Bava si avvale di un linguaggio più complesso. Intanto va detto che, mentre in Italia consideriamo Bava un minore, fior di registi hanno ammesso di essersi ispirati a lui: Martin Scorsese, Tim Burton, Joe Dante, John Landis, Quentin Tarantino e io aggiungerei anche Mel Brooks, anche se non lo ha mai ammesso.
La maschera del demonio (1960)
La maschera del demonio, del 1960, è il primo film diretto interamente da Bava, che prima aveva co-diretto tre film, due horror con Riccardo Freda e un peplum, all’italiana anche quello, con Bruno Vailati. Gli attori sono tutti italiani, salvo i protagonisti, due inglesi che, però, hanno lavorato principalmente in Italia. La protagonista è Barbara Steele, che vediamo anche in 8 1/2 di Fellini e L’armata Brancaleone di Monicelli, ma che compare principalmente in horror italiani; i titoli vanno da Il pozzo e il pendolo di Corman, I lunghi capelli della morte di Margheriti, Amanti d’oltretomba di Caiano e molti altri. Effettivamente ha un aspetto da Morticia Addams e un volto bello, ma inquietante. Il bel dottore che ne conquisterà il cuore è John Richardson, anche lui spesso impegnato con registi italiani come Luciano Salce, Neri Parenti, Pasquale Festa Campanile e molti altri.
Il film prende spunto dal racconto di Gogol’ Il Vij (qui il link se vuoi leggere il libro), uno dei più riusciti e terrificanti del maestro russo. Il vampiro, che ormai vantava almeno quarant’anni di onesta carriera cinematografica, viene rivisitato in maniera insolita rispetto ai canoni esistenti; niente canini allungati e bocche sporche di sangue, si predilige l’inquietudine, il non detto. Un grande peso per creare le atmosfere ha la fotografia, curata dallo stesso Bava; un bianco e nero che sa di illustrazione dei romanzi gotici di due secoli fa.
La storia
La storia è abbastanza semplice; siamo nel XIX secolo, due incauti viaggiatori, due medici in viaggio per un convegno, fanno resuscitare accidentalmente la strega Asa, giustiziata dall’inquisizione due secoli prima. Mentre i due sono in viaggio in carrozza, attraversando incautamente la foresta maledetta della strega, si odono gli ululati dei lupi quindi, un po’ la carrozza, un po’ il paesaggio, un po’ i lupi, ci si meraviglia che qualcuno non dica: “Lupo ululà“; il film ebbe scarso successo in Italia, ma fu un successo negli USA: chi ci dice che Mel Brooks non lo abbia visto?
Poiché a denunciarla era stato il suo stesso fratello, prima di morire la strega aveva gettato una maledizione sulla sua famiglia, predicendo la sua vendetta, attraverso le sue discendenti. Lo vediamo in questa scena, che apre il film.
Al momento della nostra storia l’ultima rampolla della famiglia è Katia che, ovviamente, è identica alla strega. Una volta risorta, Asa evoca il suo antico amante, Igor Javutic, sepolto in terra sconsacrata, che esce dalla tomba in una notte serena; all’altro Igor, quello di Frankenstein Junior, era andata peggio, visto che pioveva anche.
Va detto che gli effetti speciali sono quello che sono, un po’ per l’epoca, un po’ perché Mario Bava ha sempre dovuto lottare con budget limitatissimi e di solito li curava lui stesso con mezzi molto artigianali, ma possiamo dire che, per quello che aveva a disposizione, ha fatto miracoli.
Per primo, Asa vampirizza il più anziano dei due medici, Choma Kruvajan, ovvero Andrea Cecchi; non lo fa col classico morso sul collo, ma con un lungo bacio, dopodiché Kruvajan diventa suo schiavo e vampirizza a sua volta il padre di Katia, il principe Vajda; non si vede l’azione, ma questa volta rimangono i segni dei canini sul collo. Ovviamente il progetto di Asa è quello di acquistare nuova vita a spese della sua disgraziata discendente; a questo punto entra in ballo il più giovane dei medici, Andrej, che si è immediatamente invaghito di Katia e che, grazie anche all’aiuto di un pope incredibilmente somigliante a Gene Hackmann, riesce a sgominare i vampiri e salvare la bella principessa.
Una delle scene finali vede una folla di villani armati di fiaccole e forconi che assaltano il castello, analoga a quella di Frankenstein Junior. Ma anche il fatto che si faccia satira sul film (sempre ammesso che Brooks si richiamasse alla maschera del demonio e non ai molti altri film che ne sono seguiti) è un segno di culto, segno che i suoi stilemi sono riconoscibili fra tutti.
Molto efficacemente è giocato il tema del doppio, figura inquietante per eccellenza, dal William Wilson di Poe in giù. La prima scena che vediamo è quella del supplizio di Asa; un salto di due secoli e eccoci in carrozza coi due dottori in viaggio per il convegno. Kruvajan chiede al cocchiere di scorciare la strada passando per il bosco, il cocchiere rifiuta perché dovrebbe passare vicino alla tomba della strega, ma viene convinto da una mancia.
Poco dopo, proprio davanti al sepolcro della strega, si sfila una ruota; mentre il postiglione ripara il danno i due scienziati curiosano nel cimitero trovando la tomba di Asa, il cui corpo è costretto a rimanere nella bara grazie a una croce e un’icona con antiche iscrizioni. Andrej esce dal sepolcro, mentre Kruvajan si attarda ancora un po’ e, mentre sta esaminando l’icona, viene attaccato da un enorme pipistrello; nel difendersi rompa la croce e si trova con l’icona in tasca.
Quando stanno per riprendere il viaggio, compare come per incanto una ragazza vestita di nero con due enormi cani neri al guinzaglio che si presenta come la figlia del principe Vajda. Lo spettatore sa solo che è identica ad Asa e non sa ancora che c’è una discendente della strega identica a lei; lo scopriranno nella scena successiva, intenta a suonare il pianoforte meglio di Chopin. Anche se oggi, conoscendo i meccanismi del genere è facile inferire che ci sia una pronipote identica ad Asa, niente ci autorizza a pensarlo anzi, credo che nel 1960 tutti gli spettatori abbiano pensato che la strega era già risorta.
Nel finale l’equivoco si ripete: Kate è sdraiata nella bara di Asa, che le siede ai piedi; nella scena precedente con le due donne le posizioni erano invertite, però lo spettatore non ha visto cosa era successo nel frattempo, occupato a seguire le avventure di Andrej che, infine, arriva nella cripta e vede le due donne identiche.
Asa finge di essere Kate e implora Andrej di liberarla dal vampiro. Anche in questa situazione si ripete lo schema precedente: i canoni del genere potrebbero suggerire che le identità sono state scambiate, ma non l’intreccio del film; ne saranno certi solo quando Andrej sta per calare il colpo fatale e si accorge che la donna che sta per uccidere porta un crocefisso al collo, impensabile per un vampiro.
Per quanto il film risenta dell’età, i dialoghi siano a livello dei testi di Baglioni, degli effetti speciali abbiamo già detto, si tratta di un film tutt’altro che disprezzabile, soprattutto per come interpreta l’atmosfera del gotico. Si tratta di una versione molto letteraria del vampiro, forse più vicina a Il vampiro di Polidori o Carmilla di LeFanu che del Dracula di Stoker. Un voto pieno forse non lo merita, ma andandoci vicini non regaliamo nulla.