La guerra a Cuba, di cui puoi leggere la recensione cliccando qui, è un film che racconta una e più storie al contempo; ho avuto la fortuna di intervistare in esclusiva Renato Giugliano, regista del film e Mario Mucciarelli che insieme a lui ha curato la sceneggiatura. Un’interessante chiacchierata di un’ora e mezza sul film, sul progetto che ha portato alla sua creazione, sull’attualità a cui si ispira e sul cinema italiano in generale.
La guerra a Cuba è stato girato nei territori della Valsamoggia ed ha visto la collaborazione di tutta la comunità: l’entusiasmo dimostrato dai cittadini traspare nelle parole di gratitudine di Giugliano, che durante l’intervista racconta come la popolazione e le associazioni si siano date molto da fare per aiutare nella realizzazione del film. Tutto parte da un progetto realizzato in collaborazione con CEFA Onlus (puoi trovare più informazioni a questo link).
D: Volete raccontarci la storia che ha portato alla creazione di La guerra a Cuba?
R Giugliano: “Tutto parte da una collaborazione che io ho da molti anni con questa organizzazione Bolognese che è il CEFA Onlus, piccola Ong votata allo sviluppo agricolo e a sostenere le persone “a casa loro” [ride]. Il CEFA si occupa di dare il seme più che il cibo ai popoli, è una Ong in cui io credo profondamente che fa progetti sani, di lungo periodo. Insieme facemmo un documentario molto bello in Marocco con i migranti di ritorno, e quindi decidemmo di fare qualcosa anche qui nel territorio italiano, nella Valsamoggia operosa piena di aziende, di fabbriche, con un grande indotto economico ma anche una richiesta di forza lavoro infinita.
Tanto lavoro e tanta immigrazione, quindi, sia italiana (da nord e sud) sia straniera. E’ un terreno ricco, quindi, fertile dal punto di vista umano, con una bella mescolanza. CEFA voleva fare un progetto per riscoprire ed educare all’integrazione multietnica; avevano già da tempo scoperto il potere dell’audiovisivo per raccontare anche le tematiche più delicate e quindi abbiamo provato a scrivere insieme a loro il progetto, che sarebbe durato 18 mesi con diversi interventi.
C’era la parte cinematografica, c’erano i laboratori di scrittura creativa dai 16 ai 26 anni, a cui partecipavano ragazzi richiedenti asilo politico, quindi dal Ghana, Gambia, Costa D’Avorio e ragazzi della zona. Poi c’era un laboratorio dedicato alle famiglie degli studenti, che è stato fatto nelle scuole superiori, per parlare di inclusione e di come si può fare ad avere una società migliore. Quindi ci conoscevano tutti sul territorio, e così un film piccolo ha potuto contare su centinaia di comparse, di persone che ci hanno aiutato, associazioni, persino gli alpini che ci hanno preparato il pranzo un giorno!
C’era un coinvolgimento molto forte della comunità, e per un film che parla di comunità è stato un connubio molto bello. Attraverso CEFA in partnership con un’altra Ong (che è Overseas) abbiamo partecipato ad un bando di cooperazione e sviluppo: la AICS (Agenzia Italiana Cooperazione e Sviluppo) ci ha finanziato con un contributo importante per un progetto di questo tipo (sebbene molto dimensionato per il cinema). Per rendere il budget più cospicuo abbiamo parallelamente attivato un crowdfunding che è andato molto bene, abbiamo ricevuto il sostegno di 90 donatori e in più decine di partner hanno offerto il loro aiuto, siamo stati sostenuti tanto.”
Come ringraziamento per tutte le persone che hanno partecipato alla realizzazione del progetto le prime proiezioni, nell’inverno del 2019, sono state realizzate in anteprima nei comuni in cui è stato girato il film. Successivamente Emera film, distributore indipendente veneto votato a questo tipo di cinema, ha iniziato a progettare il lancio vero e proprio del film nelle sale, ma nel marzo del 2020, con lo scoppio della pandemia, tutto il programma è saltato. Nel frattempo però La guerra a Cuba ha partecipato a vari festival di cinema ed è stato visto nelle scuole, seguito da interessanti dibattiti.
D: E come mai il territorio ha voluto partecipare così attivamente secondo voi?
R Giugliano: “CEFA è molto conosciuta in Emilia Romagna, quindi è garanzia di qualcosa di sano, lontano da dinamiche economiche e commerciali; inoltre non era il primo progetto fatto sul territorio. Poi indubbiamente abbiamo trovato persone valide, aperte, illuminate. Fin dal primo giorno abbiamo fisicamente incontrato le associazioni, le abbiamo invitate ai corsi, abbiamo organizzato eventi di autofinanziamento. La comunità è stata molto ricettiva, il progetto è stato accolto con molto entusiasmo, e anche noi abbiamo cercato di coinvolgerli attivamente nella realizzazione del film.
Uno degli attori, Ousman Jamanka che nel film interpreta Oluwafemi, è un ragazzo richiedente asilo politico che ora fa il fabbro in un’azienda del territorio. Altri studenti hanno lavorato come stagisti, come volontari nella produzione, hanno ospitato membri dello staff… ecco, li abbiamo direttamente coinvolti e si è creata un’alchimia che ha funzionato. La nostra scenografa, Laura Soprani, oltre ad essere bravissima nel suo reparto è anche una donna molto attiva e socialmente impegnata ed è di quelle zone (Monteveglio), quindi è stato un circuito di relazioni umane che ha poi allargato e fatto crescere questa bolla ed ha funzionato.
Il progetto nasce a gennaio 2018 e le riprese sono iniziate a marzo 2019, dopo tutti i laboratori e dopo aver lavorato assiduamente con tutte le comunità del territorio. Questo ci ha permesso in parte anche di aggirare il problema budget: l’ambizione della sceneggiatura era forte ma il budget diceva “siete pazzi?” “
R Mucciarelli: “Per noi è stata importante questa cosa del rapporto tra quello che avevamo scritto e pensato e la sua realizzazione con le limitazioni che ci siamo trovati davanti: la necessità di mediare e trovare soluzioni alternative, il tempo che non c’era, gli attori che dovevano essere trovati in un certo modo; è qualcosa per cui non sarebbero bastati neanche i soldi di un piccolo esordio classico. Questa è stata una sfida sulla sfida…”
R Giugliano: “E’ stata definita un’avventura corsara… Siamo partiti senza limitazioni, facendo finta di avere Hollywood dietro. Abbiamo pensato ad una storia che fosse bella e che ci avrebbe fatto piacere raccontare e infatti la prima versione della sceneggiatura sarebbe durata circa sei ore [ride]. Poi però abbiamo iniziato a riadattarla per poterla realizzare, e in questo senso appunto l’aiuto della comunità ci è stato molto utile.”
R Mucciarelli: “In effetti c’è una crisi del senso di comunità e della vita comunitaria nel nostro Paese oggi, è una fotografia di quello che vediamo; ogni nuova rotonda, ogni volta che aggiungi un centro commerciale, muore un pezzettino di comunità. Ed è una cosa che c’è anche in Valsamoggia: noi abbiamo parlato per questo di una comunità che si sta sgretolando e tutto questo ha degli effetti che noi vediamo e che abbiamo cercato di mettere in scena, di raccontare nella maniera più interessante possibile. La cosa che ci ha colpito è che comunque non viene molto raccontata questa situazione, non viene rappresentata.”
D: Qual è il messaggio che volete mandare con questo film? C’è un intento educativo (più sul concetto di fake news che su quello di integrazione) oppure l’idea era prevalentemente quella di raccontare un territorio ed una situazione che non viene spesso raccontata altrove?
R Mucciarelli: “In questo progetto ci sono tante cose, con tanti punti di vista. E’ un film corale ma è anche un po’ un puzzle, che può essere visto in modi molto diversi. C’è chi guarda di più la parte sulle fake news, chi è più interessato alla comunità, c’è chi si concentra di più sul puzzle; le letture sono diverse e questo a noi va bene. Per noi ha una logica interna chiusa che parte da un evento: la sparatoria con cui si apre il film; volevamo legare tutto quanto ad un evento particolare e per noi “all’Americana”, ma che comincia ad accadere anche qui.
Più spersonalizzi il territorio più è un processo inevitabile, e ti avvicini ad un modello di vita che può portare a fenomeni come questo. Volevamo quindi partire da questo evento e da lì andare a raccontare questo quadro spezzettato: se il messaggio ci deve essere non è “comportatevi bene” ma bensì “abbiate più consapevolezza, guardiamoci attorno”.”
R Giugliano: “Sappiate che non solo le azioni ma le parole hanno un peso diverso. L’inizio del film con la citazione di Orson Welles parla della forza incredibile della comunicazione, delle parole: siamo abituati ormai a come tutto si sta liquefacendo, siamo abituati anche agli haters e alla gente che usa le parole a vanvera. Si è perso il peso delle parole, le usiamo un po’ così alla leggera, e invece bisogna fermarsi a pensare che ogni cosa detta oggi non è come al bar o dalla parrucchiera degli anni ’70 ’80, dove dicevi qualcosa e poi andavi a casa e il giorno dopo tutti erano a fare altro.
Oggi dici quella stessa cosa e viene raccolta da uno che sta a 2000 kilometri di distanza e magari la capisce in maniera diversa, e magari ha un background diverso e magari la racconta a qualcun altro che la capisce in modo ancora diverso… E noi volevamo ragionare su questo, quindi non so se sia un aspetto educativo nel senso vero ma sicuramente volevamo proporre una riflessione. C’è ancora tanto da ragionare su questa tematica che è ancora nuova.”
Mucciarelli sottolinea poi come sia stato importante, ai fini della sceneggiatura, creare personaggi e storie che potessero funzionare anche fuori dalla provincia; in effetti alcune delle storie raccontate sono così articolate e complete che avrebbero potuto diventare dei film a sé stanti. Appare inoltre evidente come ci sia un tentativo di “svecchiare” i film legati a tematiche sociali, che purtroppo il più delle volte sono vittime di una retorica che fa si che il grande pubblico li snobbi.
D: Rispetto ad altri film italiani sul tema immigrazione, La guerra a Cuba usa un’altra chiave di lettura, sfruttando una molteplicità di punti di vista: come nasce quest’idea?
R Mucciarelli: “Se pensiamo a due storie delle nostre, quella del vecchio che conosce un giovane profugo appena arrivato e quella del quarantenne informatico che si avvicina ad un gruppo di estrema destra, per noi erano due modi per raccontare in maniera obliqua e staccandoci dal punto di vista solito delle cose che vediamo nella nostra attualità. Quando si parla dei migranti se ne parla in tanti modi ma noi non avevamo ancora mai sentito parlare al cinema della depressione dei ragazzi che arrivano e si ritrovano in una vita svuotata, alienata. Abbiamo deciso di ribaltare due stereotipi, e far sì che nell’incontro tra il ragazzo e l’anziano si incontrassero due depressioni, due silenzi; loro parlano a gesti…”
R Giugliano: “E lì è la forza della comunicazione, non necessariamente verbale, per tornare a come viene ormai usata e abusata la comunicazione verbale e scritta e come invece si può comunicare anche attraverso il silenzio e raggiungere anche livelli molto più elevati!”
R Mucciarelli: “Anche l’altro cliché che abbiamo cercato di ribaltare, questo giovane uomo senza arte né parte, l’unico che trova disposto ad ascoltarlo è un gruppo di estrema destra: ma è assolutamente casuale.”
R Giugliano: “Esatto, poteva anche essere di estrema sinistra, ma era appunto un estremismo: un gruppo che si propone dicendo “noi abbiamo un’altra marcia” e lo ascolta, e gli danno l’esaltazione di non sentirsi solo. E tutte queste storie si volevano mettere insieme. Una storia è sempre una storia, una comunità è tante storie: se tutte le storie riescono ad essere integre e coese allora sì che ci raccontano un bel tema. L’idea madre era “racconto una comunità”, perché attraverso un racconto così arrivo più in profondità e poi ti lascio a pensare.”
Un estratto della video intervista su La guerra a Cuba
Di seguito un breve estratto con alcune delle risposte date durante l’intervista, sul cosa dovrebbe fare il cinema italiano per trattare queste tematiche e quali idee dovrebbe mettere in campo l’industria per promuovere una migliore ripartenza in questa riapertura post – covid.