Questa volta, ammetto, ho dovuto prendere appunti sullo smartphone. Per fortuna durante la mia anteprima al cinema di Jago into the White non avevo altri loschi spettatori accanto, cosicché non ho infastidito nessuno con la stupida lucina del suddetto apparecchio elettronico (quanto non li sopporto, quelli) (che fascino diventare di tanto in tanto ciò che si detesta di più) (un abbraccio ai disturbatori luminosi dei cinema).
Il motivo degli appunti era un timore (che al momento in cui scrivo queste righe non ho ancora capito se è fondato o meno; d’altronde sono appena all’inizio dell’articolo), ovvero sia quello che non sarei riuscito ad andare oltre alle 100 parole nella recensione di un documentario. Cosa diamine c’è da dire su un documentario? Lo si guarda (in questo caso per 94 minuti…) e poi ne si dà un giudizio sommario. Da vedere perché sì, indegno perché no (le “sfumature di grigio” sono da riservare alla cosiddetta “narrativa erotica”). La vita è così semplice con i documentari, mica sono davvero film (ne, tantomeno, cosiddetta “narrativa erotica”).
Ma per l’occasione proverò a fare un’eccezione (perché sì) (sono già a 164 parole) (ora 169) (171…) (non è vero, ho aggiunto delle parentesi sulle sfumature di grigio e la narrativa erotica: il conteggio è sballato, al diavolo) e a deliziare te, caro lettore o cara lettrice di icrewplay.com, con le mie impressioni (da totale incompetente dell’arte) sul “film evento” (che però è un documentario) di Luigi Pingitore.
Jago into the White, le luci da artista e da imprenditore
Il documentario si apre (e chiude) con la frase attribuita all’ultraottantenne (che Google si metta d’accordo con sé stesso, 85 o 87 anni?) (in ogni caso, viva l’aneddotica) Michelangelo Buonarroti “sto ancora imparando…” (i puntini di sospensione li metto io perché sì), ma la discuterò più avanti nell’articolo.
La prima vera immagine della pellicola, invece, è quella della materia prima quando si parla di scultura, il marmo. In particolare la cava, con tanto di ruspa dalla “ribelle” bandiera piratesca, che, paziente e ligia, scava per ottenere quello che, si spera, possa divenire poi un’opera d’arte o un qualsivoglia distillato dell’ingegno umano.
Il fatto che io, a posteriori, consideri questa operazione preliminare all’opera come una metafora dell’artista che scava nelle sue parti più inconsce per avere del materiale “grezzo” su cui lavorare è certamente una sovrainterpretazione, ma non importa, lo scrivo lo stesso.
Da qui in poi si inizia a conoscere un po’ il nostro Jago, tra abbozzi di donne nude su carta (è uno scultore e non un banale “sporcaccione”, dovrà pur progettare le sue opere) e lamentele al telefono nei confronti della burocrazia (sacre parole, abbasso quella, lei sì, banale “sporcacciona” della burocrazia).
Piano piano si palesa anche un altro “personaggio”, l’ambiente circostante, l’aria che respira il nostro Jago. Infatti, dopo diversi anni passati a New York, l’artista ha deciso di trasferirsi a Napoli, eleggendo come suo “studio di lavoro” la suggestiva Chiesa di Sant’Aspreno, dove potrà realizzare la sua reinterpretazione contemporanea della Pietà di Michelangelo.
Sì, bello, ma a cosa serve fare scultura nel ventunesimo secolo? È a questa domanda che Jago dà una risposta semplice, ma estremamente vera: fare scultura è saper comunicare.
E poi: fare scultura è togliere il superfluo, è sapere dire di no, un no alla volta per giungere ai propri obiettivi (e Jago ricorda quanto il periodo del Covid lo abbia indirizzato verso questo approccio “minimalista” ai problemi quotidiani).
E ancora, leggo dai miei appunti: i maestri morti sono i migliori, non possono rifiutarsi di insegnarti i loro segreti; la tecnica dei puntini di Canova (che mica ho capito, ovviamente); il lavoro solitario dell’artista, che cerca le risposte dentro di sé (ma tanto, si sa, sono sbagliate, come nel Quelo di Guzzanti, dico io), ma al tempo stesso la partecipazione della comunità che arricchisce di un valore unico l’opera, essendo lo specchio del lavoro dello stesso artista (tra selfie con i fan e meravigliose comparsate di tre minuti di Vittorione Sgarbi a camicia aperta).
(Idolo Vittorione, vediamo se la mia Direttrice Editoriale censurerà realmente gli elogi a Vittorione come mi ha già simpaticamente minacciato in chat) (maledetta che non sei altro) (no, perché è buona e comprensiva, soprattutto con me. NDR)
E della mitologica “grana” cosa dice il nostro Jago? Direi che in questo ha preso spunto proprio dall’appena citato Vittorione quando in una “pagina storica della televisione” al Processo di Biscardi (poco prima di dare del regista di “emmental” al compianto Pasquale Squitieri) ha ricordato a tutti che “nessuno si stupisce che Picasso sia miliardario” (Picasso che, ricordo a te invece, non era un gonzo) (e no, nemmeno Raffaello era una emmental), producendo un’emozione nel pubblico che merita di essere ricompensata anche da un punto di vista remunerativo, rifiutando l’idea naif dell’artista che non si occupa anche dell’aspetto imprenditoriale della faccenda.
Tutto ciò oggi è possibile soprattutto con l’utilizzo dei social network, con cui Jago riesce senza altri intermediari a entrare in diretta comunicazione con le persone che apprezzano lui e le sue opere. Quasi esaltante quando Jago ha affermato con la brillantezza nello sguardo che si rifiuta di lavorare per gli altri, non avendo nemmeno idea di cosa possa significare ricevere un regolare stipendio a fine mese (che roccia).
E Jago ha pure trovato una bella definizione di artista-imprenditore del futuro, ovvero qualcuno in grado di cambiare le dinamiche sociali dei luoghi in cui abita (in senso fisico e metaforico).
Jago into the White, le ombre del maestrino insopportabile
Sì, tutto bello, ok, fico (si può scrivere “fico” su icrewplay.com?).
Ma francamente che due maroni (ancora, si può scrivere “maroni” su icrewplay.com?) questa retorica da maestrino insopportabile alla lunga (94 minuti: una sorta partita di calcio in cui non ne puoi più che qualcuno voglia insegnarti a vivere. L’anticlimax perfetto).
E così bisogna ambire alla grandezza (?), trovare il bambino dietro al genio dei grandi artisti (?), la perseveranza (ma le ventidue ore consecutive di maratona Mentana per le elezioni europee sono una lezione migliore di uno al cinema che ti dice che nella vita ci si deve fare il “mazzo”) (non ha detto “mazzo”, era una rima con “mulo”, ma la mia Direttrice Editoriale mi ha ammonito che devo evitare le parolacce cattive).
E che quel giorno, senza considerare le varie call, ha lavorato solo 13 ore (ma doveva lavorarne 15) (ripeto, Mentana fa di meglio in termini di ore lavorate a un’età decisamente più stagionata del nostro Jago, per di più senza il ditino da crescita personale da due soldi puntato).
Le sue mostre? A Jago non piacciono, anche se gli piacciono (?) (non ho capito il perché esattamente, in ogni caso era discretamente irrilevante saperlo) (c’entrava lo stupore, ma chissenefrega).
Il tempo? Eh, signora mia, il tempo è poco. Non si deve “mazzeggiare” (con la c, però).
E poi qualche luminare nel suo pubblico di Instagram o TikTok o quello che è che gli chiede (ma seriamente, non per farsi qualche gag, cosa altrimenti sanissima): “come credere in sé stessi?“
La replica di Jago “non hai scelta se non vuoi sottostare alle regole degli altri” per quanto vera (come quella sul “mazzeggiare”) è di un kitsch tranciante a quel minutaggio della pellicola (ma perché sei sempre così serioso, caro Jago? Mai una volta che mi avessi fatto ridere in 94 minuti… siete tutti così voi scultori?).
E bisogna copiare dai grandi non per copiare e basta ma per inventare qualcosa di proprio (grazie al “mazzo”); e poi Jago che dice di quel galantuomo del Bernini il fatto che “vagava” (con la c) sangue nelle sue opere (pfff, basta ‘ste americanate, se uno ama quello che fa lo farà fino allo sfinimento senza consigli da Yahoo Answer che per paradosso incitano alla pigrizia); e a Jago non gli interessa essere bravo, ma essere soddisfatto (aiuto).
Forse il peggio di tutto è però, verso la fine, il passaggio in cui afferma che “il passato non esiste e il futuro è già qui, nel prossimo passo” (ma che due bolle questa roba da Baci Perugina) (caro Luigi Pingitore, fai un cortometraggio al prossimo scultore, non se ne può più).
Brevissimo bilancio finale su Jago
Telegrafico.
Jago approvatissimo come artista (anche se non ne capisco nulla di scultura) e come imprenditore.
Bocciatissimo come motivatore (ma non esiste un girone dantesco per i motivatori?).
E comunque avevi ragione, caro Michelangelo Buonarroti, a dire che stai ancora imparando. Mi hai rotto le scatole pure te alla lunga.
(Ma come “mazzo” ho fatto a scrivere oltre 1400 parole su un documentario?).
Nota di colore conclusiva
Nella citata (e celeberrima) puntata del Processo di Biscardi Vittorione Sgarbi dirà pure al buon Pasquale Squitieri di essersi vergognato (per un attimo, la vergogna è per gli stolti) di averlo sostenuto nella sua campagna che lo aveva portato in Parlamento (in riferimento al fatto che l’ex compagno di Claudia Cardinale, regista istrione, avesse detto una cosa che non pensava al solo fine di ottenere un applauso).
Curioso che dopo tanti anni, seguendo la anch’essa già citata Maratona Mentana sulle elezioni europee, si è constatato che il nostro Vittorione (istrione anche lui) è stato uno dei candidati “trombati”, giornalisticamente parlando (hai di meglio da fare Vittorione che andare al Parlamento Europeo, suvvia).