Il 20 giugno 1980 usciva uno dei film che avrebbe cambiato per sempre la storia non solo del cinema e della musica, ma anche di alcune città, di alcune persone e della vita sociale americana. Stiamo parlando di The Blues Brothers, film-musical con John Belushi e Dan Aykroyd diretto da John Landis.
Sono trascorsi 40 anni da quando la Bluesmobile trascinava per le strade di Chicago i Blues Brothers “in missione per conto di Dio”, e ancora oggi il mito di quel film è rimasto intatto.
I due musicisti blues nascono in realtà il 22 aprile 1978 all’interno del Saturday Night Live per uno sketch musicale.
Si potrebbe dire che tra i due fu amore a prima vista. La scintilla scoccò quando John Belushi e Dan Aykroyd si conobbero a Toronto, entrambi reclutati da una compagnia di comici, e si avviarono felicemente a inaugurare, appunto, le leggendarie serate di Saturday Night Live, uno dei più longevi programmi della storia della televisione.
Era l’ 11 ottobre del 1975 e quel programma, nato sotto i peggiori auspici, come una scommessa folle, caotica, come riempitivo per il buco lasciato dallo show di Johnny Carson, inventò un modo di fare comicità che ancora oggi fa scuola.
L’ idea della coppia dei fratelli Blues, ovvero Jake (Belushi) e Elwood (Aykroyd), nacque proprio sul set di Saturday Night Live. Cinque anni dopo arrivò il film.
Dan Aykroyd e John Belushi cominciarono così il loro sodalizio artistico che si interruppe bruscamente il 5 marzo del 1982 quando purtroppo Belushi morì per overdose.
Il duo musicale ebbe successo immediato, pubblicò un disco nello stesso anno e nel 1980 diventò protagonista del un film che tutti conosciamo.
Certo, va riconosciuto che The Blues Brothers non abbia forse chissà che sceneggiatura, la storia è esile ed è più che altro un pretesto per inserire videoclip musicali con cantanti Rhythm And Blues e Soul famosissimi in quegli anni, ma anche se con un po’ di ritardo, è stato un film dal successo clamoroso.
In un silenzio carico di tensione un prigioniero viene rilasciato. Fuori lo aspetta un automobile dall’ aspetto trasandato.
“Un pensiero molto carino, il giorno che io esco dalla prigione il mio unico fratello mi viene a prendere con la macchina della polizia”
Il secondino rende al prigioniero le sue cose:
“Un orologio digitale, rotto, un preservativo non usato, uno sporco”.
Il prigioniero è ovviamente Jake Blues, ovvero John Belushi, e così comincia la storia dei due fratelli Jake e Elwood Blues, universalmente noti come i Blues Brothers.
Il film di John Landis è di quelli che la gente rivede in continuazione. Basta agganciare una scena qualsiasi e non si riesce a smettere.
Alcuni scambi di battute sono entrati nel gergo comune. Come quando Belushi cerca di convincere Carrie Fisher della sua innocenza per non essersi presentato al matrimonio:
“Ti prego, ti prego, non ci uccidere. Ti prego baby, lo sai che ti amo. Non avrei mai voluto lasciarti, non è
stata colpa mia. Davvero, sono sincero. Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non
vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!”
E così via. L’ altro, Elwood, dice più volte:
“Non possono prenderci, siamo in missione per conto di Dio”.
Molte scene e battute divennero un tormentone, le suore da quel giorno furono ribattezzate “le Pinguine”.
Come dimenticare la bellissima scena al ristorante, in cui Jake chiede al tizio seduto dietro di lui:
“Quanto vuoi tu per bambina bionda?”
e poi si offre di comprare tutte le donne del tavolo.
Il fatto è che, benché The Blues Brothers sia un insieme di videoclip legati da una serie di pretesti comico-demenziali tipici della coppia Aykroyd – Belushi, ha un ritmo trascinante proprio grazie a quei numeri musicali e ai molti inseguimenti in auto che causano scene di distruzione di massa.
Poi il fascino immortale di Jake Blues ed Elwood Blues, con i basettoni, i RayBan Wayfarer e il cappello sempre addosso ha fatto il resto, trasformandoli in un’icona del cinema, al pari di altre coppie famose.
The Blues Brothers, come dicevo, è un film di culto ed è citato a più riprese in moltissimi film, per il valore iconico dei fratelli Blues; anche Tarantino, ad esempio, veste Le Iene proprio come loro, e proprio a questo film è ispirato il secondo capitolo di Sister act che oltre a ricalcarne la trama (inventarsi qualcosa per cercare di salvare un orfanotrofio/scuola dalla chiusura), condivide anche la presenza sulla scena delle “simpatiche pinguine”.
Jake ed Elwood sono infatti cresciuti nell’orfanotrofio intitolato a sant’Elena e alla santa Sindone, governato dalla terribile ma a suo modo affettuosa Sister Mary Stigmata, detta la Pinguina appunto, e ora a rischio di sopravvivenza per cinquemila dollari di tasse non versate.
Ma per i due blues man, quella istituzione cattolica è tutta la loro famiglia e decidono di salvarla a ogni costo.
Ma come farlo senza allontanarsi (troppo) dai valori trasmessi dalle suore e, nonostante qualche trasgressione, sempre ritenuti validi?
L’illuminazione arriva da un sermone di leggendario James Brown che improvvisa un canto Gospel e poi chiede a Jake:
“Hai visto la luce? Tu, hai visto la luce?”.
In quel preciso momento l’ex galeotto capisce come trovare i soldi: rimettere insieme la storica banda blues con cui lui e il fratello giravano per l’Illinois.
Questo spinge i fratelli a ricostituire “la banda” per raccogliere i dollari necessari alla salvezza dell’orfanotrofio.
La “missione per conto di Dio” alla fine riuscirà, consegnando alla storia del cinema e della musica un film memorabile e ampiamente approvato dalla chiesa cattolica.
L’Osservatore Romano infatti, testata giornalistica del Vaticano, ha descritto il film come un ‘classico film cattolico’ e ne ha raccomandato la visione a tutti i buoni cristiani.
Ma di aneddoti ce ne sono moltissimi.
Una critica che venne mossa al film fu che lasciare gli occhiali addosso a John Belushi per tutto il tempo era un crimine perché si mascherava il suo sguardo.
Una sera, durante le riprese notturne di una scena, addirittura si introdusse in una casa per mangiare un hot-dog e poi collassò sul divano. Dovette andare a recuperarlo Dan Aykroyd.
Belushi, tra l’altro, estremamente scaramantico, pretendeva un nuovo paio di occhiali per ogni ripresa, e non uno qualsiasi, ma gli storici, Rayban Wayfarer, uno dei modelli più significativi della storia degli occhiali, che prima dell’uscita nelle sale di The Blues Brothers, non era altro che un modello di nicchia.
Vendeva circa 2.000 unità ogni anno, ma dopo il film, le vendite arrivarono a 20.000 unità solo negli Stati Uniti.
Gli occhiali, però, John una volta se li toglie, nella scena delle scuse a Carrie Fisher.
È il cappello, in realtà, che non si toglie mai, se non all’inizio nella scena in carcere.
È Dan Aykroyd a non togliersi mai gli occhiali per tutto il film, però il cappello se lo toglie ben 3 volte.
La scaramanzia di Belushi, era forse dettata anche dal fatto che stava forse lottando contro una particolare congiuntura astrale: prima si fece male alla schiena cadendo male dalle scale proprio sul set – cosa che lo costrinse a portare il busto e a imbottirsi di antidolorifici per tutta la durata delle riprese – e poi, quando finalmente il peggio sembrava passato, proprio poco prima di girare la scena del concerto al Palladium, ebbe la brillante idea di provare lo skate di un ragazzino.
Cadde di nuovo e stavolta ne fece seriamente le spese il ginocchio. Il produttore Lew Wasserman – che non poteva permettersi ulteriori ritardi – chiamò il migliore ortopedico di Los Angeles e lo pagò profumatamente per rimettere in piedi Belushi, e a vedere i risultati, quel medico deve essere stato fenomenale.
Anche il film sembra non essere nato sotto i migliori auspici: quando John Landis venne a sapere che il budget previsto era di (solo!) 17,5 milioni di dollari, rispose:
“mi sa che li abbiamo già spesi”.
In effetti, i soldi finirono quasi subito, e non poteva essere altrimenti, se si pensa che per girare The Blues Brothers furono distrutte 103 macchine – un record per l’epoca – e che le riprese durarono circa 45 giorni più del preventivato.
Della Bluesmobile invece, modello Dodge Monaco del 1974, nelle riprese ne sono state utilizzate 12, tutte acquistate e usate dal Dipartimento di Polizia della California. A quanto pare solo una delle 12 auto originali è ancora in circolazione ed è in possesso del cognato di Dan Aykroyd.
Nella scena dell’assedio finale furono anche utilizzate più di 500 comparse, tra cui 200 guardie nazionali, 100 ufficiali di polizia e 15 della cavalleria (senza parlare di coloro che guidavano i carri armati, gli elicotteri e le autopompe), un evento che certo non passò inosservato, anche in una città non proprio tranquilla come Chicago… un bel passo avanti rispetto a quando fu girata la prima scena.
Il fatto che si stesse girando un film non era ancora di dominio pubblico e le guardie di sicurezza della prigione spararono per davvero verso l’elicottero che doveva fare delle riprese aeree; per fortuna non avevano una gran mira.
Tuttavia i soldi furono uno solo uno dei tanti problemi che scossero la troupe.
In più, le prospettive sugli incassi non erano delle più rosee: John Belushi e Dan Aykroyd avevano abbandonato il Saturday Night Live da più di un anno e avevano di fatto perso una fetta importante del loro pubblico, inoltre l’insuccesso in cui incorse 1941, Allarme a Hollywood, il film di Steven Spielberg con Belushi per protagonista, aveva pesantemente intaccato la fama dell’attore.
In effetti The Blues Brothers incassò poco in prima battuta, ma la distribuzione oltreoceano cambiò le sorti di questo fantastico musical: in Europa è stato apprezzatissimo e a quel punto gli americani gli hanno dato una seconda chance. Piano piano è diventato un vero e proprio fenomeno di culto, e noi non possiamo che sentirci un po’ orgogliosi di averlo capito per primi!
Sempre Akroyd ha detto che la cosa piaceva moltissimo a Belushi, che notoriamente non era certo un santo.
La sceneggiatura originale del film, scritta dal solo Dan Aykroyd era intiolata The Return of the Blues Brothers ed era lunga ben 324 pagine. L’idea era di girare un film in due parti, ma poi il regista John Landis in tre settimane di tagli e lavoro sul testo, ridusse tutto a una sola pellicola, e che pellicola.
La formula era assolutamente nuova: un musical senza essere un musical, una trama surreale, una valanga di battute demenziali, una storia raccontata seguendo i ritmi del rhythm’ n’ blues, con alcune trovate che hanno fatto epoca, vedi il tirchio negoziante Ray Charles che vuole convincere i due della bontà di una tastiera, e nel farlo scatena una danza che coinvolge tutto il quartiere, o la arrabbiata Aretha Franklin che tra un pollo e una bibita diffida i due dal portarle via il marito, Matt “Guitar” Murphy.
Ogni dettaglio è curato alla perfezione. Come sanno i maniaci anche i pezzi che si ascoltano casualmente dalla radio o dai dischi sono brani fondamentali per un appassionato di musica (in automobile ascoltano Sam & Dave e a casa Let the good times roll di Louis Jordan).
I musicisti che vengono reclutati nel film sono autentici, anzi, sono proprio quelli che hanno suonato nelle più famose registrazioni di musica soul, e infatti la band è ancora in giro, suona una cinquantina di volte l’ anno e due anni fa li abbiamo visti anche a Sanremo, insieme ad Andrea Mingardi.
Il film era totalmente fuori scala rispetto ai canoni consueti, ed era più un omaggio sentito alla musica che un film vero e proprio.
Per questo motivo l’accoglienza del pubblico e soprattutto della critica, fu piuttosto freddina all’inizio, portando il film ad incassare solo 57 milioni di dollari in patria, a fronte di una spesa lievitata a 27 milioni da un budget iniziale di 16, e 58 milioni all’estero.
Finì al 10° posto degli incassi nell’anno in cui L’Impero colpisce ancora invece incassava come mai nessuno prima.
La rivalutazione di The Blues Brothers venne solo dopo, come al solito, quando venne diffuso in home video e divenne un cult movie, anche grazie alla morte di Belushi.
Infine, nel 2004, la BBC ha decretato la colonna sonora del film come la più bella della storia del cinema.
Questo film così “dark”, ha avuto anche un lato, per così dire…rosa, che sicuramente farà piacere ai più romanticoni. Sul ponte vicino al quale i Blues Brothers nascondono la macchina infatti, si vede un graffito con un cuore, ai due lati del quale campeggiano i nomi di John e Deborah.
Non si tratta della firma di due fidanzatini di Chicago che la troupe non si è sentita di cancellare, ma di una dedica che John Landis ha voluto rivolgere alla moglie Deborah, costumista del film.
Il set fu inoltre teatro di un’altra storia d’amore, quella tra Carrie Fisher e Dan Aykroyd; galeotta fu la manovra di Heimlich che lui le praticò in un momento in cui lei stava rischiando di restare soffocata.
Una storia che ne contiene tante altre dunque, e forse è anche per questo, The Blues Brothers è uno di quei film rimasti nell’immaginario collettivo di più di una generazione.
Il viaggio “sacro” compiuto da Jake ed Elwood alla ricerca dei soldi necessari per impedire che il loro vecchio orfanotrofio chiuda i battenti, rappresenta la redenzione di due imbroglioni, ladri, folli e imprevedibili, che a suon di canzoni e inseguimenti trovano la propria strada, ma non solo; è anche un film che ha cambiato per sempre le sorti di molte persone in vari settori, dalla Rayban, fino alla città di Chicago, passando per il beffardo destino a cui sarebbe andato incontro John Belushi, che morirà per una overdose di Speedball solo due anni dopo, ma questa è un’altra storia.
Quello che è storia, è che questo film ha anticipato mode, valori giovanili, musica e addirittura dato una svolta all’economia, ci ha dato l’opportunità di conoscere o apprezzare grandi musicisti e cantanti, ci ha regalato brani pazzeschi, battute indimenticabili e scene rimaste scolpite nella nostra mente.
Più di tutto però ci ha lasciato due sagome dai contorni inconfondibili, che pur con i loro difetti, hanno avuto anche un grande pregio: ci hanno fatto divertire.