Aveva in mente questo progetto da molto tempo. Qual è stato l’elemento scatenante?
L’idea di questo film mi è venuta molto tempo fa. Ne ho parlato con Omar Sy perché ho intuito che sarebbe stato sensibile a questa storia, che ne avrebbe condiviso gli aspetti intimi e i valori che trasmette. Al di là della bellezza estetica ed esotica del Senegal, sono soprattutto i principi intrinsechi alla sua cultura che mi toccano e che volevo che emergessero nel film: il senso della famiglia, della condivisione, dell’accoglienza, della fede che si percepisce in modo molto forte quando ci si trova nel paese. Contrariamente a Le Dernier pour la route, che rivendicava un certo didattismo dal momento che uno dei punti nodali di quel film era far capire i meccanismi della dipendenza, qui ho cercato di far sentire che, non lontano da noi, ci sono persone che vivono in modo differente e che questa diversità è una fonte di ispirazione.
In che misura Omar Sy era indispensabile a questo progetto? Ha scritto il ruolo di Seydou per lui?
Omar ha un ruolo centrale in questo progetto e, insieme a Agnès de Sacy, ho scritto il ruolo di Seydou pensando a lui. Omar ci permette di accedere alla sfera privata di un luogo diverso. Da quando ha riscosso un immenso successo con Quasi Amici, è diventato una delle personalità predilette dai francesi. Padre di cinque figli, si è trasferito a Los Angeles per proteggere la sua famiglia a seguito della considerevole notorietà acquisita in Francia. Dopo un tale plebiscito, qualunque individuo avrebbe rischiato di perdersi. Lui invece è rimasto se stesso e continua a perseguire la sua carriera in Francia e all’estero. Per quanto mi riguarda, ho intuito che Omar avesse bisogno di confrontarsi di nuovo con le sue radici e che sarebbe stato positivo che lo facesse davanti a una macchina da presa. È interessante mescolare arte e vita, anche se non si realizza un film per fare un percorso psicanalitico! Abbiamo provato un autentico desiderio di cinema attorno a questa storia. Condividiamo entrambi un profondo attaccamento alla questione della paternità, delle origini. Sentivo fortemente che avremmo potuto raccontare insieme un percorso, quello di un attore di successo che desidera portare suo figlio alla scoperta del paese dei suoi antenati e che si ritrova a fare questo viaggio insieme a un bambino diverso rispetto al suo.
Negli ultimi anni, Omar Sy ha interpretato ruoli stranamente legati alle questioni del razzismo e dello sradicamento, come Mister Chocolat di Roschdy Zem o Samba di Olivier Nakache ed Eric Toledano. In Il Viaggio di Yao incarna il Bianco nel paese dei Neri!
Nel film è lui lo straniero! Per questo Yao lo chiama “il Bounty“: ai suoi occhi è “nero fuori e bianco dentro”. Questa posizione rovesciata nello sguardo che il bambino ha di lui permette di sollevare la complessa questione dell’identità. E mi auguro che rimandi lo spettatore al proprio sguardo sull’alterità.
Qual è il suo rapporto personale con l’Africa?
Quando ero bambino e adolescente, mio padre lavorava nel pubblico impiego in Mali e io andavo a trovarlo laggiù. È stata una fortuna, una fonte di arricchimento per me che ho potuto scoprire una cultura e un quotidiano molto distanti dalla mia vita di giovane occidentale in quegli anni. In un’età in cui non pensavo ad altro che ad andare in motorino e a divertirmi, scoprivo dei ragazzini che facevano da insegnanti ad altri ragazzini, che avevano una grande sete di cultura, di libri, di informazioni, di Francia. Questa esperienza ha alimentato la sceneggiatura di Il Viaggio di Yao e il personaggio del bambino che ama leggere.