“Sai mantenere un segreto? Sto organizzando un’evasione da un carcere. Mi serve, diciamo, un complice. Prima dobbiamo andarcene da questo bar, poi dall’albergo, dalla città e infine dal paese. Ci stai o non ci stai?”
Sofia Coppola ha imparato molto dal padre Francis Ford. Una delle caratteristiche che ha preso da lui è curare i propri film in toto, non limitandosi al ruolo di regista, ma scrivendo la sceneggiatura e insistendo in prima persona per ottenere l’attore che considera perfetto per la parte di protagonista. Prima di Lost in translation Bill Murray fu letteralmente perseguitato dalla giovane e agguerrita regista, che poi ha rivelato che il film non sarebbe stato neanche realizzato, se Murray non avesse accettato di farne parte. Per il ruolo della protagonista femminile la scelta cadde su una giovanissima Scarlett Johanssson. Quest’ultima, nota soprattutto per aver partecipato al film di Robert Redford L’uomo che sussurrrava ai cavalli, non aveva mai lavorato con una regista donna, ma il rapporto di complicità creatosi sul set le fu molto d’aiuto. Il film infatti cominciava con una scena ispirata all’artista americano John Kacere, noto per i dipinti provocanti delle forme femminili. “Sono fotografata da dietro vestita con della biancheria intima rosa trasparente” dichiarava la Johansson in un’intervista al New York Times del 2003. “Non sono proprio il tipo di persona dal fisico perfetto e avevo paura ad indossare quella biancheria. Sofia mi disse: ‘Mi provo io queste mutandine così vedi come stanno addosso. Poi, se non ti senti di indossarle, lasciamo stare’. Solo una regista donna poteva convincermi a indossare quelle mutandine. E così abbiamo girato la scena”.
In un lussuoso hotel di Tokyo si incontrano due americani momentaneamente soli:Bob Harris (Murray) è un maturo attore in declino, che si presta alla pubblicità di un whisky; Charlotte (Johansson) è la giovane moglie di un fotografo. Laureata in filosofia a Yale, sente di non appartenere al mondo patinato che assorbe la vita del marito, sempre in movimento e al lavoro, mentre la sua esistenza è come sospesa in un limbo. Tra i due protagonisti nasce simpatia, confidenza e forse qualcosa di più, un’ emozione che resta inespressa, intraducibile forse fino al finale, quando i due si abbracciano tra la folla, dicendosi addio e forse anche qualcos’altro, che non sentiamo, assordati dal rumore della città.
Al secondo film Sofia Coppola, premiata col Golden Globe e l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale, ambienta il «breve incontro» tra solitudini in una metropoli surreale, nella quale il senso di vuoto, lo spaesamento e l’assurdo, cui fa da corollario la delicata colonna sonora, fanno emergere i sentimenti e la vulnerabilità dei personaggi. Lo sguardo sul Giappone è banale, turistico e modaiolo, ma i due protagonisti lo ravvivano con intensità, riflettendo su cosa significhi crescere e invecchiare. Il Bob Harris di Murray (Golden Globe come miglior attore in una commedia) è “una maschera straordinaria, che assume stoicamente il peso degli anni, della stupidità umana e del fallimento personale e se ne libera con leggerezza appena stralunata.” (Paolo Mereghetti).
Girato con un budget risicato, appena 4 milioni di dollari, Lost in translation ne incassa 120 solo negli Stati Uniti e viene accolto con entusiasmo da critica e pubblico, cogliendo premi importanti uno dopo l’altro. Il film rilancia la carriera di Bill Murray e promuove definitivamente Scarlett Johansson allo status di Star. Sofia Coppola diventa la terza donna nella Storia del Cinema ad essere inclusa dalla commissione dell’ Academy nella cinquina dei migliori registi e l’unica insieme con Jane Campion ad essere contemporaneamente nominata anche per la sceneggiatura. Grazie a questo successo si afferma definitivamente, vincendo la diffidenza di Hollywood e dimostrando come il talento intuito nel suo film d’esordio, Il giardino delle vergini suicide, sia più reale che mai. Da vedere.
Voto: 7,5 su 10.