Verrà presentato alla 66esima edizione del Trento Film Festival la seconda prova da regista dell’alpinista Reinhold Messner
Si preannuncia un grandissimo periodo per uno dei più grandi alpinisti del mondo, che esattamente vent’anni fa faceva la sua prima scalata sull’Everest senza ossigeno, a soli 34 anni. Un’impresa che ha avuto dell’incredibile e che ha rotto, dopo anni, un tabù ben saldo fino a quel momento: che non si potesse sopravvivere a quelle altezze senza ossigeno. Già l’anno dopo, raggiungeva la vetta del K2 e a 36 anni scalava per la seconda volta il monte più alto del mondo, stavolta in solitaria. Una passione, la montagna, che ha seguito Messner per tutta la sua vita, regalandogli immense soddisfazioni, ma anche mettendolo duramente alla prova.
Se si pensa agli alpinisti vengono in mente le vignette della settimana enigmistica con l’omino imbacuccato che pianta la bandierina sulla cima
Per Messner, l’obiettivo non è mai stato lasciare un segno, marchiare la montagna con una bandiera o con un qualsiasi simbolo della sua conquista. Le uniche tracce lasciate al suo passaggio erano “le orme che il vento ben presto poi cancellava”. Scalare, vivere la montagna da solo, senza bisogno di oggetti in più, di aiuti supplementari, una scelta simbolo di quello che oggi viene chiamato “stile alpino”: “L’uomo da solo, non in lotta con la montagna, ma con lei impegnato in un dialogo profondo. Questo è il mio modo di vedere l’alpinismo”.
Nel 2017 era uscito Still Alive – Dramma sul Monte Kenya, il primo film di Messner. La storia che veniva raccontata era quella di due medici tirolesi, Gert Judmaier e Oswald Ölz, che nel 1970 decisero di partire alla conquista della vetta africana. Durante la discesa, Gert cadde rompendosi una gamba e l’amico e compagno di cordata scese a dare l’allarme, per poi risalire a medicarlo in attesa dei soccorsi. Solamente dopo un’intera settimana, i due riuscirono a essere tratti in salvo. Una storia vera, che si intreccia anche a quella autobiografica di Messner. Proprio nel 70, infatti, l’alpinista si trovava ricoverato in ospedale a Innsbrück, a seguito dell’incidente sul Nanga Parbat che costò la vita a suo fratello Günther, travolto da una valanga.
Messner torna anche quest’anno dietro la macchina da presa
con il suo Holy Mountain, che porterà lo spettatore sull’Ama Dablam in Nepal, una montagna alta 6.828 metri. Nel 1979, la squadra alpina di Reinhold Messner salvò una spedizione neozelandese, guidata da Peter Hilary, che si trovava in grave pericolo. Il film è qualcosa fra il documentario, che riporta anche le testimonianze di Messner e dei compagni di spedizione, e le riprese mozzafiato che riescono a renderci partecipi di quello che devono aver provato gli scalatori dinanzi alla maestosità delle montagne.
Un tentativo di “raccontare e far vivere la montagna anche attraverso le immagini”.
L’ennesima prova d’amore da parte dell’alpinista per la passione della sua vita e per la sua compagna di scalate e di avventure, protagonista costante della sua esistenza: la montagna. Una disciplina, quella dell’alpinismo, alla quale Messner ha dedicato tutto se stesso e che ha contribuito a diffondere e cambiare. Testimonianza del suo lavoro lungo tutti questi anni è il Messner Mountain Museum (MMM) a Plan de Corones. Un edificio, realizzato da Zaha Hadid, una delle più grandi donne nella storia dell’architettura, che sorge a strapiombo sulle Dolomiti. All’interno, il museo ripercorre l’evoluzione dell’alpinismo moderno; i miglioramenti dal punto di vista tecnico e delle attrezzature che sono stati realizzati negli ultimi 250 anni e i trionfi e le tragedie che si sono consumati sui fianchi delle più famose montagne del mondo, dal Cervino al Cerro Torre al K2.