Due storie diverse con una cosa in comune: il climax di ansia dai primi fino agli ultimi secondi.
Hereditary e Midsommar, usciti rispettivamente nel 2017 e nel 2019, raccontano l’orrore che si innesca quando il male incontra i nostri affetti più cari: gli amici, la famiglia, la persona che amiamo.
Ari Aster è entrato prepotentemente nei nostri cinema, non ha esitato a farci vedere scene non ordinarie, storie raccapriccianti, descritte con una naturalezza che spiazza lo spettatore.
Nel giro di tre anni il regista ha dato prova di saperci davvero fare. Certo, sa bene che rischia di non colpire tutto il pubblico con i suoi film, al contrario di Joker oppure 1917, ma per gli amanti dell’orrore potrebbe rivelarsi una fantastica scoperta.
Hereditary – Le radici del male
Annie Graham deve affrontare la perdita di sua madre Ellen, con la quale aveva un rapporto conflittuale, e tutta l’angoscia che colpisce in particolare Charlie, sua secondogenita preadolescente, la quale soffre in maniera particolare il lutto.
Charlie fin dai primi istanti dà segni di disorientamento mentale, quasi di devianza. Un piccione morto cattura la sua attenzione nel cortile della scuola e lei lo sevizierà, conservandolo gelosamente. Quello che colpisce è la freddezza nel compiere questi gesti, consumerà le sue barrette al cioccolato tranquillamente mentre taglia la testa al volatile.
Ci aspetteremmo qualcosa di sinistro da Charlie, ma Hereditary non è così scontato. La ragazza insieme al fratello andrà ad una festa dove avrà una brutta reazione allergica. Sulla strada di ritorno verso casa, caccerà la testa fuori dal finestrino e non farà in tempo a vedere un palo che le costerà la vita: subirà la stessa sorte del piccione, con la testa mozzata.
Nelle sequenze che racchiudono la morte di Charlie e la conseguente reazione del fratello e di Annie, Ari Aster ci dà i primi segni di grandezza: dopo il tragico schianto, un’inquadratura dall’alto ci mostra la macchina che, lentamente, si ferma. Subito dopo vediamo il volto di Peter pieno di lacrime con il buio dietro, lui non si gira.
Arrivato a casa, Peter chiude la macchina e va a dormire. Un’inquadratura col suo volto stanco, impaurito e affranto fa da sfondo alle urla di sua madre quando si sveglia e decide di uscire, scoprendo così la tragedia della sera prima.
Da quel momento Hereditary diventa sempre più cupo, i rapporti familiari si tendono fino a far emergere verità oscure, come la mancata volontà di Annie di volere un figlio quando scoprì che era incinta di Peter.
Il delirio che porta alla fine, tra intrecci legati a Ellen e manifestazioni di possessione tra Annie e Peter, rivelerà la realtà del film: il demone Paimon aveva posto le sue radici in Charlie, ma per “correggere” il corpo femminile, si insidia in Peter.
Hereditary è incubo, angoscia allo stato puro. Personaggi come Peter che sembrano subire la cattiveria insita perfino nella figura materna, si rivelano essere il male stesso. Ari Aster insegna che spesso non siamo noi propensi al male, ma è lui che giunge a noi, trasformandoci. Una morte, quella di Charlie, che conduce Annie alla pazzia, quasi la odiamo per il suo modo di riversare tutta la frustrazione sul marito e sul figlio. Un delirio assoluto.
Midsommar – Il villaggio dei dannati
Analizziamo adesso il secondo film di Ari Aster, considerato un capolavoro dai critici, e come biasimarli?
Ci ritroviamo di fronte ad un lutto da affrontare. Dani Ardor è una giovane ragazza che per studiare vive lontano dalla sua famiglia. Un giorno le arriva la triste notizia: sua sorella si è suicidata aspirando monossido di carbonio, provocando la morte anche dei suoi genitori.
A Dani resta solo Christian, il suo fidanzato apatico, freddo, non idoneo ad percorrere insieme alla fidanzata il tragico momento che sta attraversando. L’unica cosa che fa per lei, è invitarla a Midsommar, un villaggio dove lui avrebbe dovuto recarsi insieme ai suoi amici. Il posto è abbastanza privato ed è frequentato da uno degli amici da diversi anni.
Giunti a Midsommar, troviamo paesaggi idilliaci: il bianco delle vesti degli abitanti, il candore dei loro volti puliti e tutto quel verde, ci fanno avere quasi il dubbio di trovarci in un film dell’orrore. Ma è così, eccome se è così.
Ari Aster qui diventa maestro: un dramma consumato alla luce del sole in cui la morte viene messa in scena come qualcosa di puramente naturale. A Midsommar la gente è felice di morire e se, buttandosi da un precipizio non contraggono subito la morte, c’è la loro seconda famiglia ad “aiutarli”.
Dani e i suoi amici assisteranno attoniti e indifesi all’orrore che, giorno dopo giorno, si spiega davanti ai loro occhi. Il loro amico Pelle, veterano della comunità del villaggio, li farà desistere alla fuga descrivendo la loro storia e le usanze.
Finché tutti gli avvenimenti non li vedono coinvolti in prima persona, i ragazzi reggono durante i giorni. Sarà quando Dani verrà eletta regina di Maggio e quando una donna metterà gli occhi su Christian che le cose inizieranno a complicarsi sul serio, fino al tragico finale.
Hereditary e Midsommar: il confronto
Nonostante sia agli esordi, Ari Aster ha già messo in atto uno stile suo, un mondo che gli appartiene. Possiamo a mani basse definirlo completamente capace di gestire il dramma, sia nella sceneggiatura che nella la regia.
Riflettendo sui due film, potrai accorgerti di come i personaggi delineati hanno qualcosa in comune. Peter e Dani sono due persone che subiscono condizioni e pressioni esterne e non hanno idea di come sfuggire ad esse. Il primo con sua madre, la seconda con una comunità che l’assorbe. Entrambi si ribellano, cercano di scacciare via l’oscurità che li pervade e li tormenta, ma alla fine non ci riusciranno. In Hereditary, Peter sembrerà ancora abbastanza confuso, ma in Midsommar Dani, in quello spettacolare finale con tanto di sorriso, è compiaciuta.
Un’altra cosa che emerge da subito è il filo rosso del dramma familiare che vediamo principalmente in Hereditary, ma anche con la famiglia di Dani e la famiglia costruita a Midsommar. Il regista è particolarmente legato a questo elemento, diverse volte ha raccontato di alcuni avvenimenti realmente vissuti che lui ha ricondotto proprio ad una maledizione.
Altro elemento che si spalma sui poli opposti è la dicotomia ombra/luce. In Hereditary ci addentriamo quasi sempre in atmosfere scure, il buio è una costante nella fotografia, poche luci, messe quasi sempre perfettamente. In Midsommar invece la luce acceca, non c’è contrasto nemmeno con i costumi che aumentano invece l’espandersi della luce solare. In entrambi casi c’è del negativo: nel primo film troppo buio, nel secondo troppa luce. Entrambi possono accecare.
Passando al montaggio, vediamo che in Hereditary questo è molto elaborato, così tanto che spesso costituisce un elemento dissonante con la bellezza globale del film. Le tante, forse troppe, carrellate orizzontali forniscono una nota di pesantezza non necessaria ad un film che già di per sé rende l’aria pesante. Tuttavia i movimenti di macchina che avanzano verso le miniature di Annie e ci fanno poi entrare nell’effettiva stanza, sono una trovata geniale.
In Midsommar invece notiamo un montaggio più tranquillo, ridotto quasi ai minimi termini. Lunghe sequenze che danno ampio respiro nella parte iniziale del film ed inquadrature decisamente più claustrofobiche verso la fine.
In conclusione, possiamo dire che se in Hereditary la follia e l’angoscia erano inglobate, quasi soppresse in quella casa, in Midsommar c’è un’esplosione di queste tematiche, care al regista, come rivela in un’intervista a Vogue.
Nel villaggio dei dannati infatti la violenza all’ordine del giorno viene fatta in una comunità che si dichiara libera, svincolata dagli aspetti materiali della vita, eppure in essa vigono regole rigide alle quali è impossibile sottoporsi. Riti che però non si nascondono, anzi sono fieri di essere vissuti.
Se con Hereditary aveva sfiorato il capolavoro senza riuscire a raggiungerlo, con Midsommar Ari Aster si colloca senza troppi sforzi nell’Olimpo dell’horror.