Freud – L’ultima analisi inizia nel settembre 1939: la Germania nazista ha appena invaso la Polonia e la Gran Bretagna si prepara a dichiarare guerra a Hitler. Nel suo appartamento londinese, un vecchio e malato Sigmund Freud, scappato da Vienna appena un anno prima assieme alla figlia Anna dai tentacoli della Gestapo, incontra il brillante scrittore cristiano C.S. Lewis.
E mentre l’intero mondo è in bilico sulla terrificante prospettiva di una nuova guerra mondiale, l’incontro tra i due sarà l’occasione per un duello dialettico tra gentiluomini sul vero significato dell’esistenza, sui traumi che ne distorcono irrimediabilmente le traiettorie, sul significato di Dio.
Freud – L’ultima analisi: l’origine del progetto
Iniziamo con una precisazione necessaria: non esistono prove che un effettivo incontro tra il padre della psicanalisi e il futuro autore de Le cronache di Narnia sia mai avvenuto. Sospetti, chiacchiere e indizi, ma nulla di più. Sufficienti comunque allo psichiatra Armand M. Nicholi Jr per organizzare nel 1967 una serie di conferenze alla Harvard Medical School intitolate “La questione di Dio”, giusto costruite intorno a un possibile rapporto dialettico tra gli scritti di C.S. Lewis e il lavoro di Freud.
A loro volta, gli scritti sulle conferenze ispirarono l’autore teatrale Mark St. Germain, che nel 2009 ne portò un adattamento nei teatri di mezzo mondo. Il titolo: Freud – L’ultima analisi. Da lì l’attuale trasposizione cinematografica, firmata dallo stesso St. Germain e dal regista Matt Brown.
L’ambizione, nel cinema come in ogni altra attività umana, è una tensione meravigliosa e assolutamente apprezzabile, ma ha una grande, enorme complicazione intrinseca: va sostenuta e giustificata. Buttare nel pentolone della propria narrazione l’adattamento teatrale di un incontro tra il Galileo della mente umana e un futuro autore di fama mondiale sullo sfondo del terrificante trentennio che contiene due guerre mondiali e l’immenso vaso di Pandora di traumi personali e collettivi che esso contiene, beh, se questa non è ambizione, ditemi voi cos’è.
Freud – L’ultima analisi: il costo dell’ambizione
Ma una volta terminato, l’impressione che resta di Freud – L’ultima analisi, di fronte a tematiche tanto universali quanto complesse, sia la classica montagna che partorisce un topolino. Elegante, ben orchestrato nei modi e nei tempi, ma pur sempre un topolino a tratti insopportabilmente didascalico nei dialoghi e nella loro sostanza, di fronte all’immensità storica e umana dei temi trattati che, almeno in parte, vorrebbe eviscerare. Un lavoro di alto mestiere, ma pur sempre di sostanziale mestiere.
Tanto che, se lo scontro dialettico lungo l’intera pellicola tra Freud e Lewis vorrebbe essere al spina dorsale dell’intera narrazione, quello che finisce per rendere più interessante la pellicola sono le sue sotto-trame laterali aggiunte in fase di sceneggiatura di quello che, ricordiamo, è l’adattamento di un testo rigorosamente teatrale.
Il morboso rapporto tra Freud e la figlia Anna, costruito su dinamiche che mescolano spaventosamente il ruolo paterno a quello di analista – e che, a fine pellicola, ci suggerisce una diversa interpretazione del titolo -; i traumatici trascorsi di Lewis come fante nella Grande Guerra e le enormi conseguenze che ebbero per la sua intera esistenza; le efficaci parentesi oniriche che riportano in un qualche modo a un dimensione più puramente cinematografica una certa elementare verbosità che sottende all’intero film.
Un collo di bottiglia narrativo, quello di Freud – L’ultima analisi, che non trova veri sfoghi, girando piuttosto intorno a se stesso e costruito più sulle valide interpretazioni dei due protagonisti che su dinamiche reali e vive. Lo stesso peso specifico tra i due contendenti – il padre della psicanalisi da una parte, uno scrittore promettente ma ancora lontano dai suoi momenti letterali più importanti – presupporrebbe una disparità nel confronto che non viene mai realmente percepita, preferendo risolverla con la meno entusiasmante delle soluzioni, quella profondamente tranquillizzante del colpo al cerchio e di uno alla botte.
A reggere sulle proprie spalle l’intero peso del racconto si ritrovano così gli attori protagonisti: un al solito ottimo Sir Anthony Hopkins, che riesce a dare alla propria controparte filmica una profondità e ambiguità che non sempre i dialoghi sembrerebbero garantire; il misurato Matthew Good (Watchmen, Stoker) e il suo C.S. Lewis, in costante bilico tra ritrosia e azzardo; la dolente e conflittuale Liv Lisa Fries nei panni di Anna Freud. Sono nei fatti esclusivamente loro a portare in porto una pellicola che, nonostante una sostanziale scorrevolezza, non ha trovato tutti gli strumenti giusti per soddisfare la propria enorme ambizione.