Non so come sia nato, né come sia stato montato Fragile equilibrio, né ho mosso un dito per cliccare su un qualsiasi onnisciente motore di ricerca per saperne di più. Io dico come mi sarebbe piaciuto che fosse nato questo film, se poi è andata per davvero così, tanto meglio. Mi piacerebbe che García López avesse fatto parlare Pepe Mujica a ruota libera e poi, sulle sue riflessioni, avesse costruito il film.
Aspettatevi perle di saggezza dalla voce pacata di quel “viejo ordinario”, come si definisce lui stesso, ma non cose che nessuno ha mai detto o pensato, perché sono intuitive, ovvie, chiunque sa che deve essere così, ma fra il dire e il fare… Invece Pepe ha fatto ancor prima di dire, e da qui nasce la sua autorevolezza. Mentre Pepe parla della vita, della felicità, della solidarietà, dell’amore, della morte, della solitudine (e di solitudine lui ne sa più di altri, visto che nei suoi 14 anni di carcere in isolamento metteva da parte le briciole di pane per attirare i topi, solo per avere qualcosa di vivo con sé), il regista sposta la macchina da presa in tre realtà molto diverse:
1. Il campo di rifugiati davanti al muro che divide il Marocco da Melilla, città spagnola in territorio marocchino, dove centinaia di giovani africani cercano disperatamente di entrare in Europa.
2. Madrid. Cittadini spagnoli cacciati dalle case dalle banche, perché non riuscivano a pagare il mutuo.
3. Tokyo. Città opulenta, consacrata al lavoro, al profitto e al consumismo.
Per farla breve, chi vive in maniera più disumana sono i ricchi giapponesi: soli, senza tempo per essere felici, per amare. Sono i soli a parlare di suicidio, mentre rifugiati e sfrattati hanno uno scopo per vivere, che siano i figli o la vita stessa. Fra loro esiste una forte solidarietà. L’altruismo, spiega Pepe, è fare qualcosa per un altro senza volere nulla in cambio, la solidarietà è molto di più, perché sai che, chissà se e quando, ma nel momento del bisogno, riceverai qualcosa in cambio; che è la base della comunità. Dicevamo che El Pepe, nella sua chiacchierata, non rivela chissà quali verità, anche perché è ovvio cosa servirebbe per avere tutti una vita migliore. Basti guardare ai precetti religiosi. Le religioni più distanti nel tempo e nello spazio non fanno che ribadire i medesimi concetti di base, perché tutti si rendono conto che osservandoli si potrebbe vivere meglio e in armonia. Poi per ogni Gesù c’è un apostolo Paolo che piega alle sue convenienze il messaggio originale. Ma El Pepe non è né un dio, né un profeta, è un viejo ordinario quindi, se lo dice lui, nessuno avrà interesse a distorcere le sue parole, in più acquista di valore, perché non è un essere straordinario; è uno come noi. Due cose, però, mi sono suonate nuove e mi hanno dato da pensare: uno è che l’Occidente non ha vinto con la potenza delle sue armi, ma perché è riuscita a imporre il suo immaginario al mondo intero. Due è una cosa che credo anch’io, ma che ho sempre sottovalutato, ossia che il mondo può cambiare solo grazie a una presa di coscienza individuale. A nulla servono partiti, religioni, leader, governi, tutti influenzabili dai grandi poteri economici. Dobbiamo prendere coscienza uno per uno per opporci a quello che è il potere dominante che, di fatto, sta distruggendo la vita sul pianeta, altrimenti tutto rimarrà come è. Facile a dire, ma El Pepe è riuscito anche a farlo. Questa è la differenza che passa fra questo viejo ordinario e i più grandi filosofi della storia che hanno esortato alla rinuncia e poi frequentavano i bordelli (Schopenauer) o che mettevano innanzi a tutto la forza illuminante del pensiero e poi denunciavano i loro colleghi ebrei alla gestapo per convenienza o, peggio, per paura (Heidegger).