Stando alle dichiarazioni di metà settembre, Ron Howard pare sia rimasto sorpreso e deluso dalla retorica del candidato Vice Presidente repubblicano J.D. Vance. La cosa, a prima vista, potrebbe far dubitare della freschezza mentale dell’oggi 70enne Richie Cunningham, dato che nessuna persona ragionevole troverebbe strane le sparate fuori luogo di un esponente del movimento MAGA, la galassia del Make Amerika Great Again che farebbe tutto (vestirsi da vichingo golpista, inscenare lotterie milionarie…) pur di portare l’idolo Donald Trump alla Casa Bianca per la seconda volta.
Eppure, almeno un po’, è comprensibile lo sbigottimento del regista di Frost/Nixon – Il duello, pellicola del 2008 (a tema MAGAgne presidenziali…) con cui il Nostro ottenne 5 nomination agli Oscar dell’anno seguente.
È comprensibile, appunto, perché nel 2020, su J.D. Vance, Ron Howard ci aveva fatto addirittura un film. E durante lo sviluppo, avendolo incontrato, Ron lo aveva ritenuto una persona ragionevole, poco interessata alla politica.
Ad ogni modo, il film in questione, disponibile su Netflix, è Elegia americana, il quale valse allora una candidatura dell’Academy a Glenn Close come migliore attrice non protagonista, oltre a quella per il miglior trucco e acconciatura.
Siccome questa non è una recensione, peraltro già esistente sul sito, ne darò un giudizio sommario. I 117 minuti di Elegia americana sono discreti, certamente più apprezzabili di quanto certa critica – non di questo sito – abbia sentenziato all’epoca.
Tuttavia, e forse qui sta il motivo di tanta severità, ribalta la prospettiva rispetto al bestseller cartaceo dal quale è tratto, l’omonimo Elegia americana con cui nel 2016 il 32enne J.D. Vance raccontò la sua personale parabola di emancipazione e ascesa sociale, dalla povertà e disfunzionalità familiare in Ohio, fino al riscatto con gli studi in legge a Yale, resisi possibili grazie a una borsa di studio per studenti meritevoli a basso reddito.
Infatti, se il libro – il cui adattamento in italiano del titolo è fuorviante; in originale è Hillbilly Elegy – si concentra molto sugli aspetti comunitari dei cosiddetti hillbilly dei Monti Appalachi (ascrivibili, con le categorie italiane, a cavallo tra i cafoni di Ignazio Silone e i bifolchi di Federico Rampini…), il film prende una piega decisamente più intimista, facendo venir meno gran parte dell’analisi sociale che aveva tanto esaltato l’opinione pubblica liberal, incapace, altrimenti, di comprendere appieno il consenso di Donald Trump nella Rust Belt in via di deindustrializzazione (la delocalizzazione degli stabilimenti si fa sentire…), fino a quel momento, in quanto partito dei lavoratori, appannaggio dei democratici.
Ma in quella campagna elettorale Hillary Clinton, usando un eufemismo, non ebbe esattamente parole dolci per quei meccanici e operai bianchi, le cui generazioni precedenti erano stati mezzadri e minatori, e poi, a ritroso, braccianti nell’economia schiavista. Questa spocchia è ben espressa proprio nell’introduzione dell’autobiografia di Vance, in uno dei passaggi che bucano più efficacemente il foglio: “Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari“.
Perché sì, sia il libro che il film sono feroci critiche a quella cultura rurale e alle disfunzionalità materiali e psicologiche che produce, ma è pur sempre un’elegia, una dichiarazione d’amore per le radici, sebbene contraddittorie, da cui si è nati. Perché, come gli insegnava da piccolo la nonna, tra saggezza e miopia, l’unica cosa che conta davvero è la famiglia.
J.D. Vance, da cantore dei bifolchi a numero 2 di Donald Trump
D’accordo, gli hillbilly saranno poveri in canna. Avranno una pessima alimentazione, condizioni igieniche sotto gli standard del 21° secolo, scarsa cultura. Ma fino a che punto sono bifolchi e disfunzionali in famiglia?
Per rispondere a questa domanda, posta dalla sempre garbata Hillary Clinton, l’infanzia di Vance può venire in aiuto. La madre Bev, infatti, interpretata nella pellicola da una imbruttita Amy Adams, aveva problemi di dipendenza da sostanze – in chiusura del film viene messo a schermo, però, che Bev era pulita da 6 anni –, e, perciò, non era in grado di tenersi il lavoro da infermiera. In più, cambiava partner a capriccio, non offrendo così una figura paterna e stabile al giovane J.D., che veniva pure maltrattato verbalmente e fisicamente dalla mamma.
Il quale J.D., se non fosse stato per la nonna, interpretata da una straordinaria già citata Glenn Close, non sarebbe certamente riuscito a incarnare, partendo da una situazione di svantaggio, il tanto sospirato sogno americano.
Ma anche qui, per quanto più centrata della figlia e fondamentale per il percorso di J.D., non si deve pensare a una novella Maria Montessori. La signora Mamaw Vance, a 12 anni, aveva quasi ucciso un ladro a colpi di fucile, reo di aver provato a rubare la mucca di famiglia. Dopo averlo colpito a una gamba e reso inoffensivo, lo stava per freddare con un colpo alla testa. Grazie all’intervento dello zio Pet, il primo delitto sicuramente attribuibile alla nonna era stato scongiurato per un altro giorno.
Fan di Terminator (il quale, però, pur essendo stato governatore repubblicano, ha detto che voterà per Kamala Harris a causa del pericolo rappresentato dal trumpismo…) (hasta la vista, baby…), nonna Mamaw in età adulta è rimasta quella che era, arrivando una volta persino a dare fuoco al marito rientrato a casa per l’ennesima volta ubriaco fradicio (qualche scottatura, suvvia, poi abbiamo fatto pace…).
In questo clima di degrado e povertà, non sorprende l’ostilità di una comunità chiusa come quella degli hillbilly verso i nuovi immigrati (specie, chiaramente, se clandestini…), spesso di etnia diversa, a cui attribuiscono la responsabilità per l’ulteriore abbassamento dei salari, visto il basso costo della manodopera degli ultimi arrivati non specializzati, e l’aumento della criminalità, legata, anche, proprio a quegli stupefacenti che avevano già compromesso la vita di Bev.
Ciò può alimentare, ovviamente, altresì delle forme assortite di razzismo, dalla notte dei tempi presente, com’è noto, nella società americana, benché l’etichetta di razzista non si possa certamente affibbiare a J.D. Vance, dato il suo matrimonio nel 2014 con Usha Chilukuri. Avvocata di successo di origine indiana, ha conosciuto Vance durante gli studi a Yale, sostenendolo sempre e comunque nelle difficoltà della sua esistenza. Ora la coppia si è allargata, con tre splendidi bambini.
Bambini che, tuttavia, in generale, sono spesso al centro delle polemiche da conservatorismo radicale di J.D. Vance. È risaputo, infatti, che uno dei suoi epiteti preferiti per attaccare gli avversari – in particolare le donne dem – sia quello di gattare infelici senza figli, talvolta con l’aggiunta dell’aggettivo sociopatiche. Vero che alcune uscite di Alexandria Ocasio-Cortez, in particolare sulla possibilità di non avere figli per preservare l’ambiente dal cambiamento climatico, paiono più spiegabili sul piano della psicologia individuale che per ragioni etiche cogenti, tuttavia da una persona colta (e quando vuole pacata…) come J.D. Vance gradirei critiche più raffinate di gattara sociopatica.
Idem in tema di aborto, la forte religiosità – ultimamente J.D. Vance si è convertito al cattolicesimo, appassionandosi a Sant’Agostino – lo ha spinto verso posizioni oltranziste, raccogliendo così consensi nelle sacche elettorali più evangeliche e tradizionaliste contrarie da sempre all’interruzione di gravidanza, anche se di recente ha moderato la sua posizione, accodandosi a Donald Trump nel principio di libertà decisionale dei singoli stati.
Quasi superfluo, a questo punto, aggiungere le perplessità di Vance sul divorzio, financo in caso di unioni con episodi di violenza domestica conclamata (?) (probabile che anche qui la cosa si possa spiegare più facilmente sul piano della psicologia individuale, al netto degli insegnamenti di nonna…).
Trump, buzzurro ma newyorkese, nonché pluri-divorziato e figlio di papà, lascia fare al suo vice sui temi etici, che a lui, personalmente, interessano meno di zero, se non per mera funzione anti-establishment, qualsiasi cosa significhi questa espressione. Mentre, invece, i due trovano terreno comune nella riduzione del sostegno all’Ucraina contro la Russia, in pieno spirito isolazionista, benché l’uno, Vance, abbia visto la guerra con i suoi occhi, prestando servizio nei Marines, anche con 6 mesi in Iraq, mentre l’altro, Trump, riuscì a evitare il reclutamento durante il conflitto in Vietnam, sfuggendo al servizio militare per 5 volte in totale.
Trump e Vance, l’attualità non inganni, però, non sempre sono andati d’accordo, anzi. Ai tempi del libro, The Donald veniva definito da J.D. come l’Hitler d’America, e ciò mandava in brodo di giuggiole i liberal che recensirono entusiasti il testo. Deve avere cambiato idea il Nostro, alcuni lo hanno accusato di opportunismo politico.
Ma si è mai visto un candidato Vice Presidente degli Stati Uniti che non sia stato uno scaltro opportunista?