Ci vorranno ore, forse giorni per elaborare e digerire tutto ciò che i fratelli D’Innocenzo hanno riportato in 600 pagine di sceneggiatura con Dostoevskij attraverso una cura così maniacale nella messa in scena da risultare unica nel suo genere attraverso un racconto agghiacciante, a tratti straziante ed emotivamente travolgente.
In tutta la mia vita non ho mai fatto una cosa per piacere agli altri”
Afferma Fabio d’Innocenzo in pieno accordo con il fratello Damiano
La volontà di non piacere al pubblico è vitale nel cinema dei due registi, come particolarmente dimostrato a partire da Favolacce (2020), di cui trovate a questo link la recensione per maggiori approfondimenti. Questo perchè non esistono schemi, regole, forme o canoni negli universi narrativi creati ma soltanto storie e corpi in movimento, spesso vittime delle loro stesse azioni.
Distribuzione e sinossi
Fondamentale soffermarsi sulla distribuzione di quest’opera, a metà strada tra il cinema e la serie tv, il thriller e il noir, l’horror e il poliziesco. Prodotta da Sky Studios e Paco Cinematografica, la prima serie dei fratelli D’Innocenzo è stata distribuita nelle sale cinematografiche italiane in due parti da Vision Distribution, dall’11 al 17 luglio, prima di approdare su Sky divisa in 6 episodi.
Uno sforzo distributivo non indifferente e totalmente innovativo in Italia se consideriamo la poca appetibilità del prodotto per il grande pubblico che consigliamo di recuperare in un’unica maratona che vi impegnerà per circa sei ore in un viaggio nei meandri più oscuri e abietti dell’essere umano.
L’opera è ambientata in una periferia scarna e inospitale in cui il poliziotto Enzo Vitello (interpretato da un magnetico Filippo Timi), uomo dal passato buio e con evidenti disturbi emotivi, è ossessionato da “Dostoevskij”, un killer seriale che uccide con una peculiarità: accanto al corpo l’omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità che Vitello sente risuonare al suo interno tanto da dettare un’inconfessabile vicinanza di pensiero.
Dostoevskij: la solitudine e l’abietto
Nel corso di una visione in cui lo spettatore si troverà più volte inerme e completamente solo di fronte allo schermo, la solitudine verrà percepita in ogni dettaglio, in ogni dialogo, in ogni ambiente di questo lungo viaggio. La solitudine è una chiave di lettura fondamentale per comprendere un’opera che scava continuamente nell’animo dei protagonisti e dello spettatore in maniera brutale, sincera, violenta e senza scrupoli. Un racconto che scava nei corpi, senza la paura di mostrare aberrazioni interne o esterne, e scava nelle menti.
Se per tutta la durata del primo atto la narrazione non sembra procedere è proprio l’incessante scorrere del tempo che mette i protagonisti in contatto con loro stessi, le paure e i traumi che li attanagliano. Il protagonista Enzo, ha infatti una figlia, Ambra, interpretata da una bravissima Carlotta Gamba, caduta nel giro della tossicodipendenza che incarna quella solitudine alla perfezione. Quest’ultima non ha mai potuto vivere con suo padre ed è la vittima di una fanciullezza vietata causata da un dramma paterno che non le è mai stato svelato.
Proprio la solitudine, nonostante la forte incapacità di comunicare, spinge i personaggi a cercarsi disperatamente e ad aggrapparsi a qualcosa al di fuori di loro stessi. Enzo, ad esempio, lo fa con il lavoro, rendendolo un ossessione, la sua unica ragione di vita.
Emblematica la scena con cui si apre l’Atto I in cui, ad un passo dal suicidio, decide di rinunciare a seguito di una chiamata di lavoro da parte del suo migliore amico e superiore Antonio. Ambra si rifugia nelle sostanze per colmare l’assenza del padre anestetizzando il suo dolore e non trovando mai un’effettiva catarsi mentre Antonio, il migliore amico di Enzo, insoddisfatto e infelice della vita che svolge, non verrà mai preso sul serio dalla moglie neanche quando le scrive di volere il divorzio.
Un’altra interessante chiave di lettura dell’opera risiede nell’abietto che significa “spregevole, ignobile, vile” e che deriva dal latino abicĕre: “gettare via, respingere”. Le relazioni nell’universo narrativo creato dai D’Innocenzo sono principalmente respingenti. L’essere umano non sembra essere in grado di dialogare e di capirsi fino in fondo mentre il caos regna sovrano in una scacchiera perfettamente congegnata.
Inoltre il verbo “gettare via” rimanda inevitabilmente all’azione di “rigettare” che vediamo svolgere in più occasioni dai due personaggi principali: Enzo e Ambra. Con piani sequenza estenuanti e spesso asfissianti la regia segue alla perfezione le azioni dei personaggi senza stacchi di montaggio, soffermandosi su ciò che non vorremmo vedere, sulle medicine o le sostanze tossiche che tentano forzatamente di espellere dai propri corpi, di rigettare, di gettare via.
L’importanza dei dettagli
Dostoevskij è un’opera colma di dettagli fondamentali e ambientata in quei “non luoghi” a cui i due fratelli ci stanno ormai abituando. Come accaduto per la Spinaceto di Favolacce o la Latina di America Latina, anche in Dostoevskij si destruttura il litorale laziale delle zone di Civitavecchia per renderlo qualcosa di nuovo. Quest’inventiva ricerca delle location è una caratteristica importante che contraddistingue le scelte artistiche dei D’Innocenzo che dona alle loro opere un carattere astratto, quasi metafisico e, nel caso particolare di quest’ultima, a tratti bucolico.
La paura per me e mio fratello è un sentimento iper generante e, tutti noi sul set, avevamo bisogno di provare paura per non accontentarci di nulla”
Afferma Damiano
Per provare questa paura, come accade per tutti i personaggi nel corso dell’opera, i due fratelli hanno rinnovato gran parte della troupe e optato per soluzioni tecniche mai sperimentate prima ottenendo risultati notevoli tra i quali spiccano un comparto sonoro di qualità altissima, una fotografia graffiante e sporca coadiuvata dall’utilizzo della pellicola in 16 mm e un cast semplicemente unico in cui risaltano maggiormente Filippo Timi, il collante perfetto tra lo spettatore e lo schermo con quasi 300 scene sulle spalle, la straziante interpretazione di Carlotta Gamba, il giustiziere Gabriel Montesi e l’insoddisfatto Federico Vanni.
L’ossessione dell’assassino
L’unico modo per garantire a certa gente un futuro migliore è dargli un presente terrificante”
Afferma uno degli orfani in una battuta del film
Impossibile definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in un mondo in cui le parole di un serial killer risuonano nella mente dell’eroe generando una dualità che porterà Enzo a volerne sapere sempre di più prima di arrestare l’assassino, a volersi sfamare di quelle lettere per poterne comprendere ogni passaggio fino a toccare anche in se stesso l’odio di cui parla Dostoevskij, quell’abbandono alla vita a cui ogni essere umano, nel momento stesso della nascita, è destinato.
L’ossessione di Enzo che sfocerà in un finale di pura violenza e risoluzione, probabilmente solo per se stesso, può essere paragonata all’ossessione che i D’Innocenzo riservano nel cinema. Non c’è spazio per il giudizio, non c’è tempo per distinguere tra bene e male in un mondo che procede così freneticamente né tantomeno avere dei dubbi nei confronti di un pubblico impossibile da accontentare. Nonostante i due registi siano ancora agli inizi del proprio percorso artistico sono stati nuovamente in grado di imporre la propria visione del mondo e del cinema con coraggio mettendo qualche pulce nell’orecchio a tutti coloro che continuano a ripetere “il cinema italiano è morto“.