Dogtooth (Κυνόδοντας)
Regia: Yorgos Lanthimos; soggetto e sceneggiatura: Efthymis Filippou e Yorgos Lanthimos; fotografia: Thimios Bakatakis; scenografia: Stavros Hrysogiannis e Elli Papageorgakopoulou; colonna sonora: Grégoire Hetzel; montaggio: Yorgos Mavropsaridis; interpreti: Christos Stergioglou ( Padre), Michele Valley (Madre), Angeliki Papoulia (Figlia Maggiore), Hristos Passalis (Figlio), Mary Tsoni (Figlia Minore), Anna Kalaitzidou (Christina); produzione: Yorgos Lanthimos, Iraklis Mavroidis, Vicky Miha, Athina Rachel Tsangari, Yorgos Tsourgiannis per Boo Productions, Greek Film Center, Horsefly Productions; origine: Grecia – 2009; durata: 97′
Trama
Un registratore con all’interno una musicassetta viene acceso e si sente una voce femminile che spiega il significato di alcune parole, attribuendo loro un significato diverso da quello noto. Ad esempio ‘autostrada’ è un vento molto forte, ‘mare’ è una poltrona. Intorno al registratore tre ragazzi ripetono pedissequamente ciò che ascoltano. Una famiglia composta da cinque persone, padre, madre, un figlio e due figlie vive in una villa isolata, circondata da alte recinzioni e lontana dal mondo esterno. L’unica persona a poter uscire è il padre per svolgere il proprio lavoro di imprenditore e rifornire la famiglia del necessario. I figli potranno uscire solo quando cadranno loro i canini (i ‘dogtooth’ del titolo), cosa che non accadrà mai. Qualsiasi contatto col mondo esterno è proibito e gli unici filmati ammessi sono quelli girati in famiglia, che ormai i ragazzi conoscono a memoria. I figli svolgono attività quotidiane, per le quali ricevono degli adesivi il numero dei quali equivale a un punteggio: chi ha il punteggio più alto può scegliere l’attività ricreativa serale. L’unico elemento che rompe la routine è l’arrivo di tanto in tanto di una vigilante della fabbrica di proprietà del Padre, di nome Christine. Quest’ultimo accompagna la ragazza bendata alla villa, per consentire al proprio figlio maschio – e solo a lui- di sfogare le proprie pulsioni sessuali. Subito dopo il sesso Christine si accomoda in salotto, sorride e conversa con la famiglia, acconsente perfino a farsi riprendere in un filmino girato dal Padre per ritrarre il proprio idillio familiare, poi saluta, accetta una somma di denaro come compenso e viene riaccompagnata in fabbrica, sempre bendata. Sarà proprio Christine a contrabbandare alcune videocassette di film che riveleranno ai ragazzi la realtà fittizia nella quale sono prigionieri.
Il commento del redattore
Vincitore nella sezione Un certain regard nel 2009, la scena iniziale dice molto del film: il controllo del linguaggio e del significato delle parole (un po’ come succedeva per la neolingua orwelliana) altro non è se non una metafora della sorveglianza esercitata da un’entità che regola ogni aspetto della vita dei sottoposti (In Orwell rappresentata dallo Stato, qui dal Padre). Ogni parola che allude ad un mondo esterno è disinnescata da un’attribuzione di significato accettabile, riconducibile all’interno della casa dove i ragazzi vivranno per sempre. L’aspetto più originale del film, che deve molto ai classici della letteratura distopica come 1984, Brave New World o Fahrenheit 451 è che la reclusione, la repressione di ogni istinto di libertà personale, è operata all’interno del nucleo familiare, come accade negli stati totalitari. Ogni infrazione, anche minima, viene punita severamente al fine di non turbare l’equilibrio ovattato di una convivenza falsamente idilliaca. La concessione del padre all’istinto sessuale del figlio è l’inizio della fine, in quanto l’elemento perturbatore della quiete, che consentirà ai ragazzi di prendere consapevolezza della loro prigionia e aprirà loro gli occhi, è proprio quella Christine, trattata da prostituta, alla quale basta introdurre delle videocassette (di film come Rocky o Flashdance che incoraggiano a sognare e a vivere) per distruggere un’illusione creata in anni di condizionamento.