L’uroboro. L’eterno ritorno dell’uguale. Nella mia fine è il mio principio. Una pergamena da decifrare.
Questa la prima istantanea di Cent’anni di solitudine, serie in 8 episodi con cui Netflix, bontà sua, ha trasposto l’opera magna di Gabriel García Márquez, realizzando così il sogno di chi, come me, attendeva l’epopea colombiana su schermo fin da quando era ragazzino.
(Copertina flessibile, aggiungi al carrello, acquista ora…).
Una vicenda, quella delle 7 generazioni dei Buendía, che la piattaforma ha suddiviso in due parti – la seconda, con i restanti episodi, uscirà presumibilmente nei prossimi mesi –, con una produzione tutta locale, volta a preservare il più possibile la fedeltà al romanzo originale del 1967.
Cent’anni di solitudine, l’incipit e il realismo magico di Macondo
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio”.
Prime istantanee a parte, il celeberrimo incipit di Cien años de soledad, poi, è ripreso nella scena successiva, inaugurando il susseguirsi di prolessi nella narrazione, sulla falsariga di quanto accade nel libro.
Tutto ciò grazie a una lisergica voce fuori campo, la quale, nei momenti propizi, reciterà le parole del Premio Nobel, con il calore fiabesco che l’espediente utilizzato comporta.
D’altronde la storia di Macondo non è altro che una grande favola, la cui origine è da ricercare nel sogno di José Arcadio Buendía, esperito in una palude nel viaggio oltre la sierra, verso una terra che nessuno gli aveva promesso.
Un esodo, suo e di altri giovani all’avventura, innescato dalla presenza dello spirito di Prudencio Aguilar, ucciso dal fondatore a seguito di una battuta poco felice sulla moglie, la cugina Úrsula Iguarán, non sicura di consumare a pieno il matrimonio a causa di superstizioni dei genitori su possibile prole dalla coda di maiale, per via della consanguineità.
Liberatasi dalle paure inculcatele dalla madre, durante la traversata Úrsula partorirà Josè Arcadio, che risulterà pienamente umano. Il già citato Aureliano Buendía, secondogenito della coppia, invece, sarà il primo bambino a nascere a Macondo. Gli occhi ben aperti, simbolo di futuri presagi.
Un realismo magico, tra fantasmi nostalgici e preveggenza, tra donne che non invecchiano e pesti dell’insonnia, tra ossa irrequiete e tanto altro, di cui alcun personaggio si stupisce particolarmente, accentuato, inoltre, dall’arrivo in città della carovana di Melquíades, lo zingaro che inizierà all’alchimia José Arcadio Buendía e contribuirà allo sviluppo del paese.
Come si può immaginare dall’incipit, infine, la pacifica convivenza da età dell’oro rousseauiana verrà presto meno nel villaggio. La Grande Storia, nei panni della Guerra dei mille giorni, busserà tragica alle porte di Macondo.
Cent’anni di solitudine, sesso stucchevole e perfezione della guerra
Salvo in momenti appropriati, cio che stona nella serie sono le frequenti e stucchevoli scene di sesso, in particolare nei primi episodi.
Stucchevolezza che non si avverte sfogliando le pagine di Gabriel García Márquez, ma che l’indugiare dei registi di giornata, Alex García López e Laura Mora, fa emergere in modo consistente.
Sia chiaro, non per volgarità o inappropriatezza della trasposizione, del resto piuttosto aderente allo scritto, quanto per la diversa cadenza che i due media impongono all’incedere della storia.
In generale, infatti, il ritmo degli episodi è già piuttosto compassato, non dico noioso, ma certamente indigeribile se si ha la presunzione di visionare più di due puntate alla volta, la cui durata è un’ora piena ciascuna.
Discorso diverso, di contro, vale per la contestualizzazione climatica del conflitto tra conservatori e liberali, la guerra civile che tra il 1899 e il 1902 ha spaccato in due la società colombiana.
Sebbene non vi sia una ricostruzione storica esauriente, le immagini tuttavia restituiscono la tensione e la brutalità di quel che è successo, tra brogli elettorali del Partito Conservatore e violenza rappresentata realisticamente, senza (eccessivi) filtri.
Quasi superfluo far presente che più di un Buendía avrà un peso in quegli eventi, in primis, ovviamente, il colonnello Aureliano Buendía, il quale, da adolescente timido e chiuso al mondo com’era, diverrà così strenuo oppositore degli avversari al potere da inimicarsi financo i liberali più moderati, in nome di una (sbandierata) dignità del popolo dal sapore giacobino.
Cent’anni di solitudine, il matriarcato di Úrsula
Impossibile parlare in una recensione della moltitudine di, chiamiamoli così, eroi che appaiono e scompaiono, amano e muoiono, impazziscono e nascono. Spesso così simili nei nomi, generazione dopo generazione, fallimento dopo fallimento, in un intarsio di esistenze cicliche, di solitudini incrociate.
Ma forse qualche parola in più la merita Úrsula, colei che prende in mano la famiglia dopo la demenza del marito-fondatore, accudito ma legato al castagno del giardino.
Una donna che ha amato e odiato, saggia nella semplicità, fuggita dalle superstizioni e dai fantasmi. Ancora accanto al suo José Arcadio Buendía, il quale è al termine delle stanze infinite e pronto alle stelle, dopo la visione di un discendente, Aureliano Babilonia, impegnato a decifrare la pergamena.
Una donna che vede figli e nipoti compiere scelte scellerate, che non si tira mai indietro, che ha comunque cresciuto un mostro.
Nella seconda parte, dunque, si ripartirà dalla sua solidità, dal disperato appello al figlio Aureliano Buendía di non attaccare Macondo, il cui controllo amministrativo è da tempo passato nelle mani dei conservatori. Stolti come i liberali, questi, a inondare le strade di sangue e disperazione, nella sua visione delle cose.
Sai, mamma, mi dispiace molto. Io, però, sono già a cavallo.