Carrie-Anne Moss ha partecipato recentemente ad una conversazione con Justine Bateman, regista e scrittrice alle prese col lancio del suo nuovo libro dal titolo Face: One Square Foot of Skin, incentrato sul tema della percezione sociale dell’invecchiamento femminile.
E’ proprio in questa occasione che Moss, oggi cinquantatreenne, ha raccontato una sua esperienza lavorativa che ha dell’assurdo. Poco prima del compimento dei quarant’anni tutti quelli che la circondavano l’avevano avvertita che il suo mondo, lavorativamente parlando, stava per cambiare ma lei non aveva voluto dar peso alle loro parole.
“Eppure il giorno esatto dopo il mio 40° compleanno, stavo parlando di una sceneggiatura che mi era stata proposta con la mia manager. Lei mi disse: “Oh, no, no, no, non è quello il ruolo per cui sei stata candidata, è quello della nonna“. Forse esagero, ma è stato tutto così improvviso. Sono passata dall’essere la ragazza, alla madre e a oltre il ruolo della madre nel giro di una notte.”
La fama dell’attrice per il grande pubblico si può senza dubbio collocare all’inizio degli anni 2000, perché dopo il suo ruolo in Matrix (il cui ultimo capitolo uscirà a dicembre di quest’anno) abbiamo potuto vedere Carrie-Anne Moss in altre grandi produzioni di successo e di generi diversi tra loro, quali Memento oppure Chocolat.
E’ assurdo quindi pensare come un’attrice di questa portata sia vittima di una delle tante dinamiche distorte del mondo del cinema, che porta il fenomeno del typecasting ad un ulteriore livello di selezione: non solo alcuni attori sono costantemente relegati a interpretare lo stesso ruolo in qualsiasi pellicola appaiano, ma per di più per le donne c’è anche una specifica finestra temporale in cui possono essere collocate.
La figura algida e i tratti del viso marcati, spesso accompagnati da un taglio di capelli molto corto (che comunque ha a suo modo dato il via ad una moda nei primi anni 2000), hanno spesso messo Carrie-Anne Moss nel ruolo della donna forte, indipendente e determinata.
E’ forse per questo che stride ancora di più il contrasto nell’immaginarla interpretare una nonna solo per questioni anagrafiche;
Perché Carrie-Anne Moss non è la sola in questa situazione
Non è comunque la prima volta che succede, ed è purtroppo abbastanza scontato che non sarà nemmeno l’ultima. Basti pensare al curioso caso di Alyson Hannigan
Alla fine di quest’ultima serie tv, l’attrice ha subito un lungo periodo di pausa e uno dei motivi per cui Hollywood ha avuto difficoltà a collocarla nelle produzioni è stato proprio di natura anagrafica: a quanto pare Hannigan era contemporaneamente troppo giovane d’aspetto per interpretare ruoli materni o da mentore, e allo stesso tempo troppo “vecchia” per impersonare la fidanzata o la sposina fresca di nozze perché alla fine di How I met your mother aveva ormai compiuto i fatidici quarant’anni.
Analoga anche la situazione di Maggie Gyllenhaal, che nel 2015 raccontò a The Wrap di essere stata rifiutata in una parte perché troppo vecchia e quindi poco credibile per impersonarla: avrebbe dovuto interpretare l’amante di un uomo di cinquantacinque anni. E lei ne aveva trentasette.
E’ spesso anche la paura della reazione del pubblico a scoraggiare i produttori nella scelta di un’attrice piuttosto che un’altra: pare che in molti si siano opposti all’idea di vedere Winona Ryder interpretare una madre in Stranger Things perché troppo abituati a pensarla un’eterna ragazza.
E’ in effetti questo anche il destino di molte delle cosiddette fidanzatine d’America, che dopo anni passati ad interpretare il ruolo femminile nelle rom-com non riescono più ad uscirne, e subiscono forzate pause lavorative (curiosamente spesso interrotte da qualche film che si rivela un fiasco al botteghino): basta pensare a Meg Ryan, regina incontrastata del genere tra gli anni ’80 e l’inizio del 2000.
Le difficoltà che affrontano le attrici nel processo di selezione sono state brillantemente riassunte in questo famoso sketch per la BBC, dove ad un immaginario casting ogni candidata viene paragonata all’impossibile e stereotipato standard imposto dalla produzione.
E’ proprio la scrittura dei personaggi a risultare forzata e spesso assai distante dalla realtà: molte figure femminili sono inserite nella storia palesemente solo per fungere da motore di crescita per il personaggio maschile (e non solo nel caso della classica donzella in pericolo), e molte volte per interpretarle si scelgono donne sempre incredibilmente belle e giovani, o iper sessualizzate.
E questi sono solo alcuni dei cliché a cui ci ha abituato il cinema, passando dalla classica ragazza degli anni ’90 che una volta tolti gli occhiali e sciolti i capelli si trasformava da brutto anatroccolo a desiderabile cigno, fino ad arrivare alla donna che, in una situazione di crisi, guarda l’uomo chiedendo “Cosa facciamo ora?”, come evidenziato da Reese Witherspoon ai Women of the year Award del 2015.
Proprio Witherspoon si è attivata in prima persona ed è co-fondatrice di Hello Sunshine, casa di produzione che ha all’attivo successi quali Gone Girl e Big Little Lies; l’attrice è inoltre presente sul catalogo Netflix con un talk show dal titolo Donne brillanti – Le interviste di Reese Witherspoon, in cui ha avuto ospiti (tra le altre) Dolly Parton e America Ferrera.
Questo a sottolineare una certa inversione di tendenza che si nota nell’ultimo periodo: sta aumentando l’attenzione dei direttori dei casting verso la creazione di prodotti con attori e attrici sempre più rappresentativi delle persone reali, che non perpetrano stereotipi irraggiungibili con madri giovanissime e sempre in forma, ospedali con medici e pazienti che sembrano appena usciti dalla copertina di Vogue, o donne poliziotto con messa in piega e trucco perfetti anche in fuga da un’esplosione.