Il ministro del MIBAC Alberto Bonisoli, il 14 novembre, ha firmato il decreto che stabilisce le finestre di distribuzione nel cinema. I film saranno distribuiti prima in sala e solo dopo un preciso periodo su piattaforme streaming come Netflix.
La sala cinematografica è un tempio e questo resta un assunto indiscutibile. Il luogo fisico che accoglie da oltre un secolo centinaia di spettatori ha la sacralità del teatro e la rispettabilità di una celebrazione. Come in una messa, il cinema ha i suoi rituali, il silenzio e il raccoglimento post visione volto a metabolizzare quanto è accaduto in noi dopo quel paio d’ore di introspezione (per un film di Xavier Dolan) o di sano divertimento (se abbiamo optato per The Avengers).
Parliamoci chiaro, il film al cinema arriva in modo così schietto che l’esperienza che ne consegue è sempre un’esperienza unica e irripetibile. Il di più appercettivo che deriva dalla visione in sala è da imputare all’assenza di distrazioni esterne, alla mancanza del richiamo del social e ad una totale immedesimazione nella storia che solo il grande schermo (e il grande suono) possono offrirci.
Questo tipo di “performance”, per parlare con gli stilemi economici attuali, è precluso sul piccolo schermo e ancor di più su quello piccolissimo come lo smartphone. Se con la riproducibilità tecnica abbiamo ucciso l’aura dell’opera d’arte di benjamiana memoria, con l’avvento di Netflix abbiamo infierito su un corpo morto. La seconda morte dell’aura è tale perché quell’accezione “cultuale” che venne meno con l’avvento del cinema, viene a mancare nuovamente se si preferisce la piattaforma pronta all’uso domestico anziché la religiosità del “cinematografo”. Si tratta di una constatazione e non di un giudizio, ora come allora.
Il cinema è poi anche luogo di aggregazione, palcoscenico di eventuali confronti ed un bellissimo esempio di condivisione collettiva di un’opera creativa (e d’arte, in certi casi).
Sic stantibus rebus, riflettiamo sulla bontà del decreto Bonisoli.
Le radici del problema sono un po’ più risalenti. In primavera il direttore dell’ultimo Festival di Cannes Frémaux ha tolto dalla competizione i titoli Netflix perché non era prevista una finestra tra l’uscita in sala e quella in streaming. Viceversa, a Venezia, Alberto Barbera ha deciso di ospitare film di questo tipo, tant’è che Roma di Alfonso Cuarón ha vinto il Festival ed è stato prodotto da Netflix e programmato per uscire in sala e in streaming.
Il decreto in questione è attuativo della legge sul cinema 220 del 2016 e individua un termine di dilazione per la distribuzione in streaming di film italiani dopo la prima proiezione al cinema (termine di 105 giorni salve riduzioni in casi specifici).
Ora, se da un lato, questo schema favorisce (rectius non penalizza) gli esercenti, dall’altro non consente ai piccoli film italiani di avere un bacino di utenza più ampio. Pensiamo a “Sulla mia pelle” sul caso di Stefano Cucchi. Grazie alla distribuzione in simultanea in sala e su Netflix è arrivato a spettatori lontanissimi nello stesso momento, essendo disponibile nel catalogo mondiale della piattaforma. Ciò ha creato un ampio dibattito che non ci sarebbe stato, forse, senza un coinvolgimento così consistente.
La tentazione di ragionare da “integrato” è molto forte, perché imporre l’educazione ad andare al cinema è invitante, d’altra parte, in questo caso, fare l’”apocalittico” mi sembra doveroso. Pensare di poter fermare l’evoluzione inarrestabile delle piattaforme streaming è impensabile ed ostacolare questo progresso con “decreti anti-Netflix” è inefficace.
In altri termini non è costringendo la gente ad andare al cinema che si salva il cinema stesso. L’obiettivo è che il film sia visto e, se lo spettatore non vuole fare lo sforzo cinetico di godere della proiezione in sala, è un suo problema. Non è facendo il prete bigotto e prepotente che si ottengono sinceri fedeli.
Bellissimo articolo, condivido, specialmente la sacralità del cinema che purtroppo si sta perdendo sempre più. E la colpa non è sicuramente di Netflix.