Gurvinder Singh è un regista indiano, conosciuto nel suo paese per i film in lingua punjabi come Anhe Ghore Da Daan e Chauthi Koot, presentati in anteprima a due festival europei: la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (dove il primo viene premiato nella sezione Orizzonti) e il Festival di Cannes. Nel 2019 ha realizzato Bitter Chestnut (Khanaur) presentato in anteprima al Busan international film festival.
Protagonista è Kishan, un ragazzo diciassettenne che vive un villaggio sperduto dell’Himalaya, aiutando la nonna e la madre e guadagnando soldi extra con un lavoretto presso un ristorante per i turisti. Se da una parte sente il richiamo del mondo, della vita in una grande città, è grande dall’altra la sua famiglia prova a dissuaderlo su questa scelta preferendo che portasse avanti il lavoro di suo padre nel laboratorio di falegnameria. Una vita meno movimentata ma decisamente più sicura.
Bitter Chestnut mette in scena lo scontro tra modernità e tradizione: Kishan sogna una cambiamento, un nuovo stile di vita trasferendosi in città; deve però allo stesso tempo, far fronte alla richiesta dei suoi genitori di intraprendere la professione di carpentiere, tradizionale nella sua famiglia. I suoi sogni devono fare anche i conti con i rischi che un trasferimento in una grande città comporta, rischi che ha appreso dalle storie raccontate dagli amici di ritorno in paese e dai discorsi dei clienti del ristorante, estremamente scontenti della moderna vita urbana. La stessa proprietaria si presenta in contrapposizione al desiderio di Kishan di abbandonare il villaggio: proprio a Bir la donna ha infatti trovato un rifugio dalla vita delle metropoli, costruendo per se stessa una microcosmo in montagna dove vivere i suoi ultimi anni in pace.
All’inizio del film si legge “Tutti i personaggi e gli spazi rappresentati in questo film sono reali. Recitano se stessi” . In Bitter Chestnut vengono usate delle persone vere a rappresentare loro stesse sullo schermo. Kishan Katwal lavora in quel ristorante, quelli che vediamo comparire come i suoi genitori sono effettivamente i suoi. Questi non-attori parlano quindi delle proprie vite e delle lotte quotidiane della comunità a cui appartengono. Il film è quindi al confine tra il documentario e la finzione, unisce infatti l’importanza di tematiche e motivazioni proprie del documentario a una meticolosa struttura narrativa propria invece della finzione.
Una scelta non dettata solo da motivazioni stilistiche ma anche da una modo di per poter fare cinema utilizzando le risorse che si hanno a disposizione, così come luoghi e personaggi, avendo così un controllo creativo totale, come specifica l’autore stesso in un’intervista rilasciata per Film companion.
L’uso di persone reali o comunque attori non professionisti è presente nel cinema fin dai suoi esordi e negli ultimi anni si sta riscoprendo come nuova metodologia per realizzare questi prodotti ibridi.
Il contrasto tra modernità e tradizione in Bitter Chestnut lo si percepisce anche dalle lunghe inquadrature che Gurvinder Singh decide di prendere. Come in The Postman’s White Nights di Andrej Končalovskij (anche in questo film i personaggi del villaggio interpretano loro stessi) i tempi sono dilatati e lunghe inquadrature del paesaggio fanno da didascalia a scene di vita quotidiana. In una sorta di neorealismo durante i 100 minuti del film non assistiamo ad avvenimenti eclatanti ma seguiamo il protagonista nella sua normale routine.
Bitter Chestnut si posiziona sicuramente tra quei film che costringe lo spettatore, ormai abituato ad un montaggio sempre più frenetico, a una visione più lenta, più meditata delle immagini che gli si pongono davanti agli occhi.