«Mi piace l’odore del napalm di mattina. Una volta, una collina, la bombardammo, per dodici ore, e finita l’azione andai lì sopra. Non ci trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di Viet. Ma quell’odore… si sentiva quell’odore di benzina. Tutta la collina… odorava di… di vittoria.»
E’ la frase che più riecheggia negli amanti di Apocalypse Now ambientato prima a Saigon e poi in Cambogia nel 1969, ovvero ben cinquanta anni fa. Lo stesso ha visto la luce solamente 10 anni dopo e ci vollero ben due anni di riprese, quando per la sua realizzazione il maestro, F.F. Coppola, pensava di impiegare sei settimane. La realizzazione di questo film si deve in modo principale a Lucas che, grazie ad una sua intuizione della sceneggiatura di Millius edita nel ’69, approdò sulla scrivania del neo produttore Coppola nei primi anni ‘70. Il regista aveva da poco creato la sua casa di produzione, American Zoetrope, con la quale realizzò Il Padrino e per rafforzare la casa produttrice aveva bisogno di qualcosa di speciale. Ebbene, come in ogni metà che incontra l’altra metà perfetta, lo stesso accadde tra la sceneggiatura presentata da Lucas e l’accoglimento di Francis Ford Coppola, che comunque rettificò in tutti gli aspetti, riscrivendo la scenografia creando così il capolavoro che conosciamo oggi, Apocalypse Now. Il film è liberamente ispirato ad un’opera di Joseph Conrad, Cuore di tenebra, edita in tre momenti nel 1899; il cinema, che coincidenza, stava muovendo i primi passi come “diavoleria in cui si vedono gli oggetti muoversi ma senza spostarsi e scompariscono”. La pellicola trasla la risalita del fiume, nell’opera è il fiume Congo, nella così detta “Africa nera”, nel film è il fiume Nung, nella remota giungla cambogiana, alla ricerca del colonnello americano Walter E. Kurtz (interpretato magistralmente da Marlon Brando); lo stesso è un ex alto ufficiale dei Berretti Verdi, da tempo disertore ed ormai in preda alla follia dettata dall’orrore stesso della guerra. L’incaricato di questa missione è affidato al Capitano Benjamin L. Willard, ruolo interpretato in un primo momento (solo una settimana di girato) da Harvey Keitel e in seguito da Martin Sheen, che avrà un importante impatto per la finalizzazione della pellicola, costata solo, si fa per dire, trecento-cinquanta-mila-metri. Il tutto inizia con un’attesa senza senso che riporta il capitano a Saigon dove era già stato. Il trauma di ciò che aveva visto e commesso l’avrebbe portato a chissà quale pena, invece incredulo viene convocato dall’Alto Comando per una missione con lo scopo preciso di entrare nei territori del colonnello Kurtz e “porre fine al suo comando”.Willard viene messo così su una imbarcazione ed ha disposizione quattro unità per affrontare la risalita del fiume, tra cui risalta un aspirante Chef, Hicks, interpretato da Frederic Forrest, al quale Coppola affiderà, in seguito, molti dei suoi film.
Il primo incontro di Willard è con Kilgore, comandante delle truppe aeree, oltre ad essere surfista, interpretato da Robert Duvall (consigliere personale né Il Padrino), il quale simboleggia l’essere cinico di una nazione che, democraticamente commette assassini di massa per liberare un popolo dall’oppressione, ma dall’altra condanna un suo uomo, se non il migliore, che commette l’eliminazione di singoli individui senza autorizzazione dei suoi capi. Lo stesso Kilgore, pur di fare surf, fa arrivare quattro caccia per devastare un solo mortaio, nascosto nella foresta ed il piccolo villaggio con il Napalm. Da qui che inizia il vero viaggio mentale che avvicina Willard a Kurtz, come se ogni miglio navigato corrispondesse ad un concetto che avvicina i due uomini; il capitano, fin dall’inizio non riesce a collocare la registrazione, in cui il colonnello menzionava di “voler essere come una lumaca su un filo di rasoio e riuscire a sopravvivere”, con la carriera unica ed indiscussa che avrebbe portato un militare degno di nomina a Generale. La strada che porta alla cattura del disertore continua non senza altri spunti di riflessione che il regista dà allo spettatore; l’imbarcazione della Marina ne ferma una indigena per un controllo; il tutto finirà con il massacro di innocenti, colpevoli solo di nascondere un cucciolo di cane. Si avverte da questo momento in poi, come se ci fosse un abbandono graduale della ragione, quasi a voler sempre prendere le sembianze di Kurtz senza che ci sia una spiegazione razionale. Il comandante della barca, arrivati al ponte che segna il confine con il territorio del semi Dio, si rende realmente conto di ciò che sta per accadere. Sul letto del fiume i cinque militari si imbattono in tappeti fatti di cadaveri lasciati sulle sponde del fiume Nung, sostanzialmente come monito per chi entra nel territorio dell’ idolatrato ex capo dei berretti verdi. La paura avuta negli avvenimenti precedenti mettono in tensione l’equipaggio creando così quell’ansia che fa diventare ciechi anche i migliori cecchini, proprio perché al minimo rumore essi sparano all’impazzata senza nessun raziocinio creando così forti allarmismi nella popolazione ormai devota al Re-Sacerdote. Willard comunque procede sempre più sconvolto ma convinto nel finire ciò che aveva iniziato. Finalmente il capitano sente l’odore del capo di quel popolo di adepti ed arriva al suo cospetto. Dopo giorni di prigionia il capitano viene lasciato libero ma anziché allontanarsi resta sempre vicino a questo personaggio, che incarna tutto il putrido della guerra ma anche il rispetto in qualche modo, in un gioco di luci ed ombre sopraffini. Le ultime scene faranno sì che i due personaggi quasi si trasformino ed uno prenda il posto dell’altro, ponendo forse così fine alle lotte intestine in loro stessi. Apocalypse Now – Final Cut metterà in risalto quelle scene e quel montaggio, che a parer mio meritava l’Oscar, che fanno di questo film una vera opera d’arte della filmografia di quegli anni risaltando ipocrisie di una società non sempre doma, come se cercasse di giustificarsi dell’orrore commesso dai propri soldati al di fuori dello Stato.
Un film, che pur sapendo come finisce rivela sempre lati nuovi su cui riflettere a distanza di quaranta anni dall’uscita sui grandi schermi. Da non perdere