‘A Livella
Totò
Quando, diverse settimane fa, ho deciso che il mio Ritratto di un attore sarebbe stato dedicato al Principe della risata, mi sono detta:
“conosco tutti i suoi film a memoria, lo guardo sin da bambina, mi ha consolata nei momenti difficili e rallegrata in quelli tristi, non sarà difficile scrivere di lui”
Studiandone la vita, le particolarità, la personalità, mi sono invece resa conto di provare una profonda soggezione verso quest’uomo, che è stato talmente tante cose, è transitato attraverso talmente tante esperienze, delusioni, passioni e sofferenze vivendo sempre al massimo e intensamente tutto quello che la vita gli ha riservato, che è stato davvero difficile raccontarlo.
Spero di esserci riuscita almeno in parte e di averlo fatto con lo stesso trasporto e la stessa intensità che ho provato io leggendo di lui, con il medesimo interesse che si prova ascoltandolo recitare ‘A Livella, scritta nel 1964 con l’intento di affrontare ironicamente il tema della morte.
E sì ce il Principe Antonio De Curtis, da buon napoletano, era un tipo piuttosto superstizioso
“Odio i gatti neri, sussulto se si versa l’olio e non faccio niente di venerdì”
dichiarò durante un’intervista.
“Credo anche che esistano gli jettatori e, per ingraziarmeli, neutralizzando così i loro influssi malefici, fingo di trovarli simpatici, li tratto bene, arrivo persino a coccolarli”.
Tuttavia, quasi in antitesi con quanto dichiarato, Totò possedeva un loculo in un cimitero monumentale Al Verano di Roma e spesso si infilava rimanendoci anche intere nottate.
“Non ho mai provato alcuna paura in mezzo ai morti. Sono i vivi, a volte, ad essere spaventosi”.
La verità però è che, durante il Ventennio fascista, Totò e molti altri artisti contrari al potere venivano spesso perseguitati. In particolare, durante le repliche della rivista Fascino (particolarmente invisa al regime per il gioco di parole Fasci-no) furono molte le retate e le volte in cui la polizia lo attese alla fine dello spettacolo.
Avvisato da alcuni lavoratori del teatro, Totò scappava da un’uscita laterale e andava a rifugiarsi nel suo loculo, al cimitero. Solo pochissime persone molto fidate sapevano che ne possedeva uno.
Viveva in una dimensione in cui cose e numeri avevano una loro valenza. Odiava i numeri 13 e 17 e non accettava né camere d’albergo, né posti riservati in treno o altro che avessero quei numeri.
Non prendeva mai decisioni né di martedì né di venerdì. Estremo nella capacità di amare, di donare, di credere ed ottenere, ma anche di smisurata gelosia e dedito ad irrinunciabili abitudini come il fumo ed i caffè che lederanno il suo immenso cuore nonostante la sua grande vitalità.
Le origini
Antonio Vincenzo Stefano Clemente nasce a Napoli il 15 febbraio 1898 alle 7 e 30 del mattino, al secondo piano del rione soprannominato Sanità per la sua aria, a quei tempi, particolarmente salubre, in un palazzo di antica nobiltà, che era appartenuto fino al ‘600 al barone Stanislao Campagna, in un freddo e spoglio appartamento dove abitava sua madre Anna Clemente.
Era un delizioso bambino con una folta testa di riccioli biondi.
“Le amiche di mamma andavano tutte pazze per me”
avrà a raccontare lui stesso.
Era un dedalo di vie triste e chiassoso, il rifugio sicuro dei ladruncoli e dei mariuoli, di proletari che vivevano delle briciole che cadevano dalle pantagrueliche vite dei nobili dell’epoca, mentre l’urbanesimo incalzava nella periferia della città.
Anna, una sedicenne molto bella, orfana di padre, vive in famiglia con la madre Teresa e quattro fratelli. Sarà proprio uno di loro, lo zio Vincenzo che fa il meccanico, ad andare in municipio per denunciare la nascita del piccolo Antonio.
Quanto al padre, il marchese Giuseppe De Curtis, è uno scapolo di trentatré anni che, pur amando Anna, come nobiluomo che obbedisce alle regole del tempo e soprattutto a quelle di un padre irascibile, non convive con la sua amante, ma anzi deve tenere nascosta la relazione.
Anna, chiamata in famiglia Nannina, tanto giovane da essere sfrontata, non fa mistero né del suo legame, né della sua gravidanza e vive, quasi esibendola, la sua condizione di mantenuta, anche se il fidanzato è più generoso in bei regali che in aiuti concreti.
Più amante che madre, preferirà lasciare il bambino alle cure della nonna per dedicarsi completamente all’amato con il quale si incontra tutte le sere.
Saranno il bacio che gli dà prima di uscire e il profumo della cipria con cui si è fatta bella i primi ricordi del piccolissimo Antonio, che la madre ha soprannominato da sempre con il vezzeggiativo affettuoso di Totò.
Antonio crebbe per lo più con Teresa madre di Nannina appunto, una siciliana corpulenta che regnava come una vera mater familias della Campania Felix nel tugurio del Rione Stella occupandosi dei quattro figli e di quel nipotino giunto senza un padre ed a cui dispensava attenzioni e tenerezze.
Non un regalo per Natale o per il compleanno, ma solo freddo, fame e miseria scaldate però dall’amorevole dolcezza della nonna trascorrerà l’infanzia del piccolo Antonio che porterà sempre con sé per mano quel misero scugnizzo che da grande vizierà accontentandolo in ogni capriccio, come in una sorta di restituzione di ciò che natali davvero non troppo felici gli avevano sottratto.
Sarà proprio il ricordo delle sue radici e gli stenti patiti che lo conservano sempre disponibile ad aiutare soprattutto i più giovani, facendo di lui non solo un grande artista, ma una persona d’incredibile generosità, come solo chi ha vissuto davvero, la fame, la miseria, si è fatto da solo e non usa falsi pudori sa essere ed imprimendo in lui un fondo di mestizia e rassegnata malinconia.
Essere figlio di una nubile o, come si diceva allora, di N.N. gli pesa sempre di più mano a mano che cresce, perché vive l’emarginazione nel comportamento scostante dei compagni di giochi. Tanto più che è povero e viene spesso vestito con pantaloni ricavati dalle gonne smesse di sua madre.
Un paio di pantaloni con delle grandi rose rosse gli valsero il titolo canzonatorio di “femminiello” Totò non ci sta, si ribella, si strappa di dosso gli abiti, resta in mutande ed improvvisa una scenetta con delle mosse tanto curiose a dileggio dei fastidiosi che questi ammutoliscono prima, ed esplodono in fragorose risate poi, ed al fine della sua esibizione lo applaudono mentre lui con una camminata dinoccolata e disarticolata, che anticipa il futuro, si allontana riscattato.
Nel 1904 Totò compiva sei anni e veniva iscritto a scuola, era uno scugnizzo svogliato dalla pagella disastrata.
Trascorreva le giornate in casa a giocare da solo con una mantellina bianca ad officiare finte messe che però lo ponevano già al centro di un ideale palcoscenico ed in un’interpretazione in cui, come ogni officiante è un one-man show.
La scuola era per lui una detenzione e già in quarta veniva retrocesso in terza, solo grazie all’energia della madre riuscirà a finire tutti e sei gli anni delle elementari ed a conquistare così un attestato che per i tempi era comunque un titolo di studio e nonostante la rassegnazione materna, il padre decide d’iscriverlo alle ginnasiali al Collegio Cimino in via San Giovanni a Carbonara, dove studiavano i figli dei poveri, ma non arriva neppure alla licenza ginnasiale.
Qui è vittima di un piccolo incidente che gli cambierà, fortunatamente direi, la fisionomia del volto, in quanto durante un giocoso incontro di box nel cortile del collegio, un insegnante gli deviò il setto nasale:
“Totò nel suo aspetto fisico è nato allora, mi è minore di dodici anni”
affermò Antonio de Curtis tempo dopo.
Come accade oggi, così succedeva allora ed i genitori decidono di mandarlo a lavorare: passa da garzone ad imbianchino, ma dipingere le case dei ricchi lo avvilisce e porta con sé sempre pigrizia e disinteresse, rifiuta le mance che gli vengono offerte ed appena può fugge con qualche amico all’osteria di Don Aniello alla Stella, bighellonando con gli scugnizzi e facendosi beffe di qualche mal capitato che imita alla perfezione.
Totò sentiva di avere qualcosa da esprimere a modo suo, da raccontare, ed assistendo alla rappresentazione di numeri di varietà nei teatrini napoletani sente risvegliarsi in sé l’istinto che darà forma alla sua intera esistenza.
Intanto nel 1913/14 debutta in uno dei tanti teatrini napoletani con lo pseudonimo, Clerment, mentre il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra ed Antonio, immaginando un ideale riscatto, una via di fuga dall’ambiente familiare, una forma di compensazione per gli insuccessi già riscossi, si arruola.
Conosce però ugualmente le durezze e le stupidità della vita di caserma.
Al distretto militare lo assegnano prima al 22° reggimento dislocato a Pisa e poi al 182° battaglione destinato ad andare in Francia. Prima della partenza il colonnello raduna i soldati e li mette al corrente che in Francia coabiteranno con un reparto di marocchini, suggerendo di portarsi un coltello per difendersi eventualmente dalle loro abitudini “diverse”.
Totò è spaventatissimo e alla stazione di Alessandria finge un attacco epilettico così ben riuscito che lo ricoverano all’ospedale militare in osservazione e da lì passerà a Livorno.
Tra una degenza e l’altra, Totò subisce le vessazioni di un caporale, uno di quei rigidi militari di carriera che tanto gioiscono nel rendere la vita più difficile dei poveri soldati opprimendoli con ogni forma di umiliazione.
Per un non nulla scattavano punizioni: pulizia di gabinetti, mondatura di patate, offese verbali…Una sera su un tavolaccio Totò teneva banco facendo il verso al suddetto e la vendetta sfociò nella geniale esclamazione:
“Siamo uomini o caporali?!”
fu uno scroscio di risa e di applausi dei suoi commilitoni che dovevano essersi sentiti liberati almeno per un momento dalla loro condizione e vendicati da chi fa della propria posizione l’unico merito da usare a discapito di tutti, non un vero uomo appunto, ma un tronfio prepotente, un caporale appunto.
Tornato a casa, Totò annuncia ai genitori che ha deciso di seguire la sua vocazione. La disapprovazione è generale.
Totò segue la sua strada da solo e per non gravare sul bilancio familiare si unisce a compagnie di second’ordine. Si presenta all’impresario ‘ Eduardo D’Acierno e comincia a lavorare in piccoli teatri periferici imitando le macchiette di De Marco.
Ma le esibizioni sono spesso accolte con fischi e Totò, già di carattere triste e malinconico, viene preso da crisi depressive.
Con lui si aggirano allora per gli stessi teatri altri attori musicisti che diventeranno famosi, come Eduardo e Peppino De Filippo, Armando Fragna, Cesare Bixio.
Le “staccate” si tengono nei teatrini di Aversa, Torre del Greco e Castellammare, il sabato e la domenica.
Chi faceva prosa, chi componeva canzoni, chi si dedicava al varietà. Antonio continua su questa strada e acquista una certa notorietà.
La coincidenza vuole che il marchesino suo padre avesse iniziato una sua attività, di agente teatrale, che lo aveva reso economicamente indipendente dalla famiglia che quindi si fosse riavvicinato ad Anna.
All’inizio degli anni venti il marchese Giuseppe de Curtis, riconobbe il figlio e decise di regolarizzare l’unione sposandone la madre, riunendo la famiglia.
Era il 1922 tutta la famiglia si trasferì a Roma.
Antonio trovò impiego presso il modestissimo Teatro Salone Elena nella compagnia di Umberto Capece. Viene assunto, come si usava con i novizi, con l’accordo che non avrebbe ricevuto compenso giacché gli si dà l’occasione d’imparare il mestiere e deve ritenersi fortunato ad avere qualcuno che voglia prenderlo con sé.
Il nuovo praticante Totò ha modo di imparare proprio seguendo il metodo di Capece che si basa tutto sull’improvvisazione. Ogni giorno si fanno le prove due ore prima di andare in scena sulla base di un canovaccio che gli attori arricchiscono di battute e di lazzi.
La recita consisteva in una farsa con Pulcinella protagonista. Antonio prendeva parte alle rappresentazioni ormai da un mese e la gente già cominciava a riconoscerlo ed apprezzarlo, ma abita vicino alla stazione Termini e per arrivare al teatro, che si trova invece nei pressi delle mura vaticane, deve attraversare tutta Roma.
Una sera di pioggia arriva in ritardo e, quando l’impresario lo rimprovera, si fa forza e gli chiede almeno i soldi per prendere il tram; invece di dargli le poche monete, Capece lo caccia via in malo modo.
Totò se ne va infagottato in un vecchio cappotto militare con sotto il braccio il suo costume.
Totò si mette subito a cercare un nuovo lavoro. Ha fortuna perché viene scritturato nella compagnia di Francesco De Marco che si esibisce al teatro Diocleziano. Ma purtroppo, solo dopo qualche settimana, viene licenziato per l’invidia di un attore già noto che vede di malocchio il suo successo.
Ancora una volta il giovane si trova senza un lavoro, ma è ben deciso a coltivare i suoi sogni. Frequenta il Caffè Canavera in piazza San Silvestro e il Caffè Vesuvio in piazza San Claudio dove sono soliti riunirsi gli attori, soprattutto quelli disoccupati.
Totò si sente nel suo ambiente, ma esasperato dall’inattività e sfiduciato per l’avvenire, sembra faccia addirittura un tentativo di suicidio con l’etere.
Ma per fortuna non è solo in casa. Sua madre, accorgendosi della puzza di medicinale, lo trova sul letto incosciente e riesce a rianimarlo mettendogli la testa sotto il rubinetto.
Il giovane tocca il punto più basso della sua depressione, che non è dovuta soltanto alla mancanza di lavoro ma a una serie di circostanze sfortunate come l’incontro con una attricetta calabrese che si fa passare per indiana perché esegue un numero esotico e che si dice abbia fama di cocotte.
Con i capelli lisci e bruni raccolti sulla nuca, gli occhi bistrati, vestita in maniera eccentrica colpisce Totò e non ci mette molto a farsi invitare nella sua camera. Ma quando sono già in intimità, lei si alza di scatto dicendo che deve dare da mangiare al bimbo. Totò si meraviglia che abbia un figlio. Invece lei toglie da una cesta un grosso pitone che le si attorciglia intorno al collo.
Spaventatissimo, Totò raccoglie i suoi indumenti e scappa. La ragazza, per vendicarsi di questa fuga, mette in giro la diceria che il giovane attore sia impotente, cosa che gli dà enormemente fastidio dal momento che, dopo il teatro, le donne sono la sua maggiore passione.
Seguirono tempi duri in cui solo il sogno convinto di voler diventare attore gli permisero di tirare la cinghia, stringere i denti e resistere ai morsi della fame.
La situazione richiedeva una sterzata e con coraggio a due mani decise di presentarsi ad uno degli impresari più temuti ed esigenti del tempo: Don Peppe Jovinelli, proprietario dell’omonimo teatro in piazza Guglielmo Pepe.
Allo Jovinelli sono passati attori celebri come Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Gustavo De Marco e molti altri.
Antonio decise di proporsi senza elemosinare, sfoggiando un’impavida quanto recitata sicurezza, e mentre ancora il bavero della camicia gli tremava mise in scena davanti all’impresario un’imitazione di Gustavo De Marco che lo convinse ad assumerlo.
Dopo una settimana in tutta si Roma si parlava già dell’omino elastico che strabuzzava gli occhi e si arrampicava sul velluto del sipario per avvincere un pubblico che lo ripagava con fragorose acclamazioni e richieste di bis.
Un episodio curioso contribuisce in quei mesi ad aumentare la sua popolarità. Per sfruttare la sua prodigiosa agilità da scimmia, Jovinelli ha l’idea di scritturare Oddo Ferretti, campione dei pesi medi, perché ingaggi un finto incontro di boxe con Totò.
Ma quest’ultimo, trasportato dall’entusiasmo, si mette a tirare dei pugni pesanti ai quali, innervosito, il campione risponde con micidiali diretti che spaventano l’attore fino a farlo scappare in platea. Il pubblico pensa che sia una scena preparata e applaude entusiasta. Anche se il suo successo cresce, Totò non guadagna ancora abbastanza da permettersi dei vestiti nuovi.
E’ costretto a girare sempre con il cappotto per nascondere le toppe dei pantaloni. Finalmente un giorno si presenta senza cappotto al barbiere Pasqualino, che è diventato suo amico e non capisce perché Totò non voglia mai togliersi il cappotto, nemmeno quando gli taglia i capelli.
Il segreto del cappotto rimase tale fino a conclusione del contratto con Don Peppe Jovinelli, a quel punto Totò fece un baratto con un amico e scambiò il cappotto con un vestito un po’ stretto, ma con nessuna parte mancate e si sentì in condizione di raccontare all’amico le sue ragioni, erano passati i tempi in cui
“unne se poteva nemmeno levare il cappotto per i pantaloni sfondi”
e tra una chiacchiera e l’altra a erano giunti davanti al teatro Sala Umberto, era il sogno di ogni attore poter recitare lì. I due riuscirono ad entrare grazie alle conoscenze di Pasqualino che settimanalmente faceva i capelli ai gestori di quel teatro
Pasqualino nutriva una sincera stima nelle capacità di Totò e fu così che raccontò del delirio in cui il pubblico finiva davanti alle contorsioni di Totò, degli applausi scroscianti che gli erano tributati e tanto disse e tanto fece che pur di zittirlo il Cavalier Cataldi decise di accontentarlo.
Entrare al Sala Umberto sanciva la svolta tanto agognata, la fine del primo tempo della vita, fatta di fame, freddo, stento e delusioni e l’avvento finalmente della dolce carezza dell’affetto del pubblico.
La seconda vita di Totò
Quando il macchinista chiamò i 5 minuti per l’entrata in scena di Totò, Pasqualino era all’orlo della commossa soddisfazione e corse a sedersi in platea a godersi il suono del pubblico in delirio. L’acclamazione dei bis ed il pubblico in visibilio, fu l’assicurazione degli anni a venire di Totò.
Volò veloce di bocca in bocca il racconto delle macchiette e degli spettacoli di questo nuovo artista, si diffuse in Italia la sua fame ed in lui una certa consapevolezza che ormai il suo successo poteva solo crescere di giorno in giorno.
Per tutta la sua vita però Totò, memore della miseria patita non potrà mai scordare la latente paura di tornare indietro e per un capriccio del pubblico trovarsi di nuovo nei meandri della solitudine e degli stenti; sarà questa la causa che lo porterà, per sua stessa ammissione a girare film mediocri, non potendosi permettere emotivamente il lusso di rifiutare proposte e rimanere inattivo dopo quanto patito in gioventù.
Era il 1928 e ad euforizzarlo in questo periodo oltre al tanto agognato iniziale successo giungeva il riconoscimento del padre che lo rendeva a tutti gli effetti, civili e legali, marchese.
Finalmente non doveva più nascondersi dietro nomi d’arte o pseudonimi per coprire i suoi illeciti natali. Morto l’arcigno nonno marchese Luigi de Curtis che aveva perentoriamente proibito al figlio di sposare una umile popolana, Giovanni decise di regolarizzare il rapporto d’affetto che in fondo da sempre lo legava ad Anna, madre di Totò. Della nobiltà aveva il pallino e si era intestardito in tutti i modi e finalmente ci era riuscito, ma ancora non era soddisfatto.
Il desiderio probabilmente di trasmettere i titoli nobiliari ai figli che avrebbe avuto, lo convinse a chiedere di essere adottato da un nobile napoletano di antico lignaggio caduto in miseria in cambio di un vitalizio, il vecchio marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, che lo riconobbe quando lui aveva già compiuto il trentacinquesimo anno di età. Totò che fino ai trent’anni non aveva avuto un padre ora ne aveva addirittura due, entrambi nobili.
Per celebrare il tutto, si fece addirittura coniare una medaglia d’oro, del peso di 50 grammi, da regalare ai suoi amici più intimi, con impresso il proprio capo di profilo, come si usava fare nelle monete che raffiguravano gli imperatori romani.
Totò, le donne e l’amore
Al giorno d’oggi, un divo amato dalle donne, ha un aspetto un po’ diverso da Totò. Per questo forse si fa fatica a pensare che il Principe della Risata fu un vero “sciupafemmine”. Molte e varie furono le sue amanti, di qualunque estrazione sociale. Del resto Totò amava le donne.
“La donna è la cosa più bella del mondo. Meno male che nostro Signore, per crearla, tolse una costola ad Adamo. Meglio una costola maschile in meno e una femmina in più”
fu una sua famosa esternazione. Le donne gli cadevano letteralmente ai piedi, soprattutto quando era un teatrante. Ma il suo atteggiamento fu sempre un po’ quello del coccodrillo che piange le famose lacrime dopo aver divorato i figli.
Il suo personaggio si è ormai consolidato: e la marionetta disarticolata, in bombetta, tight fuori misura, scarpe basse e calze colorate che conserverà per tutta la vita.
Totò va pazzo per le donne e le donne vanno pazze per lui.
Celebre il divano che si faceva mettere in camerino per eventuali ospiti.
Poi conosce Liliana Castagnola, starlette del burlesque italiano dell’epoca, comunemente detta “sciantosa” da un popolo che poco capiva ancora quell’arte. Liliana aveva fatto quasi scoppiare ostilità tra due stati, avendo flirtato con importanti capi di governo; era famosa in Europa, corteggiata e viziata.
Antonio aveva l’abitudine di scegliere, da dietro il proscenio una dama per cui recitare, come facevano gli eroi dei tornei medievali, così lui decideva di sera in sera per quali occhi avrebbe recitato.
Liliana era una chioma di capelli corvini che coprivano una cicatrice d’un colpo d’arma da fuoco che un amante le aveva sferrato prima di suicidarsi pur di non perderla, su un copro algido e perfetto; era una di quelle donne che portavano nella vita il gusto della tragedia ed il senso di continuità con le opere che interpretavano.
Era giunta fino al Teatro Nuovo proprio per vedere Totò, che se ne innamorò al primo sguardo, ne nacque una storia appassionata. Amore, morte e spettacolo sono la scenografia che fa da sfondo al legame tra Totò e questa incantevole femme fatale.
Antonio la raggiungeva tutte le sere dopo lo spettacolo nella pensione per artisti dove alloggiava con l’afflato che caratterizza le conquiste sentimentali ai primi approcci, e lei nutriva per Totò un vero amore:
“guai se mi mancassi”, “un tuo bacio è tutto”
era solita scrivergli nei messaggi che mandava al suo Totò dal portaborse del teatro.
Fu proprio mentre la loro storia diventava di pubblico dominio ed i vincoli della relazione più stretti che Totò si rese conto che nel momento della sua affermazione artistica un rapporto così stretto avrebbe limitato la sua libertà d’azione.
Dopo la passione del sentimento, dopo le gelosie reciproche, dopo le scenate di disperazione di Liliana che sentiva Totò scivolargli tra le dita lui le comunicò che sarebbe partito per una tournée da solo. Liliana lo supplicò di portarla con sé, di concedergli di seguirlo e permetterle di lavorare alle sue direttive, ma più dell’amore poté la paura e la gelosia.
Gestire Liliana diventava sempre più difficile, lo tempestava di telefonate per tenerlo vicino, inoltre la donna aveva avuto un considerevole numero di amanti e per un uomo geloso come Totò questo lo turbava non poco.
La notte tra il 3 ed il 4 marzo 1930 una macchina percorse per diverse ore i vicoli di Napoli con Liliana a bordo al limite della disperazione ed un Antonio dilaniato tra l’asciugarle le lacrime e la consapevolezza di doversi allontanare per continuare con convinzione a calcare le scene.
Tornata nell’angusta prigione della sua stanza, dopo aver scritto una lettera a Totò, Liliana si tolse la vita ingerendo un flacone di sonniferi.
Colto da rimorsi postumi, Totò la fa seppellire nella tomba di famiglia dei De Curtis e qualche anno dopo, darà il nome dell’amante alla figlia.
Il lupo però, come è noto, perde il pelo ma non il vizio. In tournée alle Follie d’estate di Firenze Totò conosce una ragazza giovanissima e dolce, che diventerà sua moglie. E’ Diana Bandini Rogliani Serena di Santa Croce che si trova in città ospite di parenti.
Fino a quel giorno un dolore chiuso e schietto lo teneva prigioniero dei sensi colpa e del vuoto lasciato dalla morte di Lilia (come Totò era solito chiamare La Castagnola quando intendeva imprimere un tono d’intimità alle sue parole), avvenuto appena un anno prima.
Era un rito per Totò arrivare in teatro molto presto e chiudersi in camerino: amava leggere, dormicchiare sull’immancabile divano, ripassare la parte che puntualmente avrebbe stravolto, e solo in ultimo con un gesto deciso della mano tracciare con una matita nera sotto gli occhi due righe dritte e tramutarsi cosi da Antonio in Totò.
Chi lo conosceva in privato sapeva bene quanto non ridesse, non facesse battute, non gli piacesse il rumore e non si sapeva proprio spiegare come fosse possibile che dai 5 minuti chiamati dal “butta dentro” che gli annunciavano per il suo ingresso in scena lui divenisse il funambolo dei sipari, il mimo disarticolato e buffo delle scene, l’idolo del pubblico che fremeva aspettando il suo ingresso.
Diana dirà di non averlo trovato
“brutto ma buffo perché la sua faccia si componeva di pezzi belli, messi insieme in maniera bizzarra, ma soprattutto di due occhi grandi e malinconici”.
Il trentatreenne Totò comincia a corteggiarla e Diana, che si è innamorata di lui, e non vuole lasciarlo. Si sposano con il solo rito civile a Roma nella primavera del 1932.
Scoppia la gelosia patologica dell’attore, che lo porta a chiedere l’annullamento del matrimonio in Ungheria (sarà ratificato in Italia, nel 1940).
Ma malgrado ciò la famiglia resta in qualche modo unita fino agli anni ’50 per amore della figlia Liliana.
Liliana nasce all’Hotel Ginevra in via della Vite in una stanza che Totò aveva fatto apprestare appositamente perché non trovava decoroso ed igienico che si nascesse in un ospedale dove la gente va e viene e ne succedono di tutte. Tra padre e figlia nasceva un amore che travalicherà l’amor filiale, ma somiglia più alla devozione di cui solo i grandi uomini sono capaci per gli amori che sanno puri e rari.
Donerà alla figliola ogni benessere e la cura come il suo tesoro più grande, con precettori privati, in casa affinché nessuno possa importunarla, lei cresce in una spiazzante somiglianza con il volto paterno e ne eredita lo humor e la generosità di cuore, caratteristiche che si ripetono genetiche nelle generazioni a venire, fino ai giorni nostri.
É la sublimazione dell’istinto di vita, un clamoroso successo ormai lo avvolge, una donna che lo idolatra l’ha reso padre di una principessina ed il riconoscimento genitoriale da quel Marchese che tanto lo aborriva è ormai solo un ricordo; Totò decide di coronare la sua unione prendendo in sposa Diana il 6 marzo 1935 nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina.
Tuttavia Diana Bandini Rogliani sospettava da tempo che il comportamento di suo marito non fosse tra i più nobili e quando scoprì la tresca fra Totò con Silvana Pampanini, altra desideratissima donna dell’epoca, se ne andò per risposarsi poco dopo, come pure la figlia Liliana, stufa delle inaccettabili restrizioni che suo padre le imponeva.
Totò se la prese con Silvana, come se la colpa fosse sua, e scrisse la celebratissima canzone Malafemmena.
Tutti i diritti della canzone furono intestati alla ex moglie Diana, in richiesta di perdono. Diana in seguito divenne la sua concubina, oggetto di focosi slanci d’amore.
“Le corna dell’amante si svitano, quelle della moglie marchiano un uomo”
era la sua frase ricorrente. Gli slanci di gelosia di Totò e i suoi tradimenti furono ciò che portò Diana ad andarsene, ma quando il suo secondo matrimonio fallì, tornò tra le braccia di Totò, che la accolse come amante anche se si era già risposato con Franca Faldini.
Diana, di diciotto anni più giovane, lo amò fino alla morte. Anche lei arrivò a impazzire. La figlia Liliana racconta che, prossima alla morte, ordinava ancora alla domestica di apparecchiare per due.
“Mio marito tarda a rincasare, ma alla fine torna sempre da me”.
Nel 1940 al rientro da Massaua appena prima dell’ingresso in guerra dell’Italia aveva accusato un forte disturbo all’occhio sinistro con successivo distacco della retina. Operato d’urgenza e bendato tutto il periodo della convalescenza Diana gli tenne la mano e gli fu vicino giorno e notte accudendolo con amore e dedizione. Fu di nuovo la gelosia a scrivere l’ultimo capitolo della sua vita con la moglie.
Vedendo che si era assopito Diana si allontanò un attimo lasciandogli la mano e lui per controllare dove fosse non fidandosi si strappò le bende compromettendo il risultato dell’operazione. Diana stanca dalle continue scenate di gelosia e dalla mancanza di fiducia decise a tal punto di non disdegnare la corte dell’avvocato Tufaroli e con un anticipo di qualche mese, ruppe la promessa fatta di restare vestale del focolare domestico finché Liliana non si fosse sposata. Totò non glielo perdonò mai.
Dopo il duplice matrimonio di Diana con Tufaroli e di Liliana con Buffardi Totò chiuse per qualche tempo i rapporti con entrambe e si trincerò in un invincibile scudo di malinconia.
È il 1952 e Totò resta colpito dall’immagine di Franca Faldini che appare sulla copertina del settimanale Oggi. Le manda subito un grande mazzo di rose con un biglietto
“Guardandola sulla copertina di “Oggi” mi sono sentito sbottare in cuore la primavera”.
Poi le telefona per invitarla a cena. La bella ragazza dai lunghi capelli neri e dagli occhi blu ha appena ventun’anni ma è già tornata dagli Stati Uniti dove, scritturata dalla Paramount, ha preso parte al film Attente ai marinai! al fianco di Dean Martin e Jerry Lewis. Gli risponde che accetterà solo se lui farà in modo di farsi presentare.
E così che pochi giorni dopo, a una cena in casa di una contessa, Franca si trova seduta accanto a Totò.
Da quel giorno si incontrano quasi quotidianamente e il 15 marzo Totò indice una conferenza stampa nel suo appartamento di viale Bruno Buozzi 64 per annunciare ai giornali il suo fidanzamento con Franca Faldini.
La loro storia d’amore, che dura quindici anni fino alla morte dell’attore, non approderà mai al matrimonio, anche se Totò è ormai libero, forse per la grande differenza d’età — Totò ha allora cinquantaquattro anni, trentatré più di Franca — o forse perché entrambi non ne sentono il bisogno. Lei non tornerà più in America dove avrebbe dovuto interpretare un secondo film.
L’intervento dell’avvocato di Totò farà risolvere il contratto senza nessuno strascico. Nello stesso periodo il principe collabora a Siamo uomini o caporali?, la sua biografia curata da Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli per l’editore Capriotti, in cui rievoca gli anni del suo lungo apprendistato.
La situazione di convivenza senza un legame matrimoniale creò scandalo all’epoca, tanto che, pochi anni più avanti, i due, stanchi di essere tormentati dai paparazzi e dai giornalisti (che li definivano “pubblici concubini”), furono costretti a fingere di essersi uniti in matrimonio all’estero, un espediente che comunque non funzionò completamente.
Il successo gli arrideva e l’amata Franca era in attesa di un bambino. Antonio si sentiva proiettato nel futuro e l’idea di diventare padre all’età di 56 anni anziché preoccuparlo gli dava forza ed entusiasmo. L’avrebbero chiamato Massenzio se fosse stato maschio.
La vita ordiva però, ancora una dura sorpresa per Antonio. Franca era all’ottavo mese di gravidanza e nulla lasciava presagire il triste epilogo della vicenda. Una sera mentre erano seduti sul divano del salotto ed il proiettore proponeva per loro City Light di Chaplin. Franca accusò dei dolori lancinanti al ventre, Antonio si precipitò a chiamare il padre che accorse alla clinica Quisisana, la più vicina alla casa dei futuri genitori, dove era stata trasportata Franca in tutta fretta.
Il dott. Galeazzi medico di famiglia ed amico di Totò non si era reso conto delle condizioni di Franca ed avrebbe potuto salvare il bambino se avesse prestato maggiore attenzione ai livelli di albumina della Faldini durante la gravidanza. Antonio attendeva angosciato e trepidante nella sala d’aspetto e fu posto davanti ad una terribile scelta, se ad essere salvato dovesse essere il bambino o la madre.
“Professore salvate Franca, questo è quello che voglio”
rispose distrutto Antonio, e così fu.
Il Cinema e il successo
Chiusa definitivamente la stagione dell’avanspettacolo, Totò si trova a una svolta importante.
Nella stagione 1932/33 Totò fonda una propria compagnia, sono per lui gli anni d’oro dell’avanspettacolo.
La gente lo ama e lo apprezzano persino critici e intellettuali.
Nel 1937 Totò interpreta il suo primo film Fermo con le mani di Gero Zambuto.
Nel 1938 gira con Carlo Ludovico Bragaglia il secondo film Animali pazzi, ma è con la regia di Amleto Palermi, nel film San Giovanni Decollato, tratto da una commedia di Nino Martoglio, che Totò offre la misura delle sue possibilità di attore comico cinematografico. Gli sono accanto Titina De Filippo, Silvana Jachino e Franco Coop.
Animali pazzi, a dir la verità, subisce molte vicissitudini tanto che, iniziato nel 1938, uscirà nelle sale solo nell’aprile dell’anno dopo. Prima di tutto c’è il problema dei costi che il produttore vuole contenere costringendo Bragaglia a escogitare laboriosi trucchi per poter girare alcune scene, come quella finale del matrimonio che si svolge in un grande salone.
Il regista aveva chiesto cinquecento comparse ma il produttore gli risponde che non ha i soldi per pagare. Si accordano su cinquanta. Dal momento che il film è tutto basato sul doppio — Totò interpreta due ruoli, quello di un poveraccio e quello del barone Tolomeo de’ Tolomei — si usò l’espediente tecnico dei mascherini.
Così la sala viene riempita con le poche comparse che, con l’aiuto di quattro mascherini, modificando le posizioni delle persone, cambiando dettagli dei costumi, mettendo il cappello di uno a un altro e così via, pare la riempiano come se fossero una folla di duecento persone.
Il film nasce da un’idea fantasiosa e surreale di Campanile che immagina una clinica per animali pazzi e inventa un doppio ruolo per Totò. L’attore d’altra parte ha appena interpretato la rivista Dei due chi sarà? sfruttando proprio la comicità che nasceva dal suo doppio personaggio.
Il gioco del doppio che si presta a infinite variazioni verrà riproposto negli anni successivi in moltissimi film, dando vita a una galleria di “doppi Totò”, da L’allegro fantasma a Le sei mogli di Barbablù, da Totò terzo uomo a Totò Diabolicus dove Totò mette inscena le sue capacità trasformistiche interpretando ben sei personaggi, fra cui anche una donna, Laudomia di Torrealta.
Diretta da Steno, la pellicola si presenta come una parodia del genere giallo-poliziesco e dei fumetti a sfondo violento, offrendo in assoluto una delle migliori interpretazioni del comico accanto ad un altrettanto bravissimo Raimondo Vianello.
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Ma sia perché molte trovate devono essere cancellate per mancanza di mezzi, sia perché il tentativo è più ambizioso delle effettive capacità del regista, nemmeno Animali pazzi è un film del tutto riuscito, anche se Totò vi inserisce tutte le risorse della sua marionettistica buffoneria.
Nell’aprile del ‘46 la corte di appello di Napoli conferma Totò ultimo discendente della stirpe imperiale bizantina e nello stesso anno porta in tournée in Spagna, a Barcellona, la rivista Entra dos luces, accanto a Mario Castellani.
Lo preoccupa molto il fatto di dover recitare in una lingua che non conosce e ha paura che gli spagnoli, non capendolo, possano fischiano.
Riscuote invece un grande successo, tanto che il pubblico è disposto a sopportare lunghe code pur di andarlo a vedere, suscitando le invidie dei colleghi spagnoli.
Solo nel 1947 con I due orfanelli Totò sfonda anche nel cinema. Inizia qui, si può dire, la seconda parte della sua vita professionale, che lo porterà a essere protagonista di quasi un centinaio di film e a trascurare definitivamente il teatro.
Prima di partire, la notte dell’Epifania 1947 appunto, la compagnia dà un’ultima rappresentazione per i soli lavoratori dello spettacolo, e se cominciano a seguirlo freddamente, sono invece “costretti” a lasciarsi andare sempre più all’entusiasmo.
Durante lo stesso anno, mentre sta iniziando la stagione dei suoi grandi successi cinematografici, è ancora in teatro con due riviste.
Il 15 aprile debutta al teatro Valle di Roma con Ma se ci toccano nel nostro debole… di Nelli, Mangini, Garinei e Giovannini e il 21 dicembre è nello stesso teatro con C’era una volta il mondo di Michele Galdieri.
Della compagnia fa parte anche una giovane soubrette, Isa Barzizza; ed è proprio Totò che la sceglie per la rivista, e insieme a lei e Mario Castellani interpreta il famoso sketch del vagone letto, un’invenzione di che al debutto durava sì e no dieci minuti, e che con il protrarsi delle repliche arriva fino a quarantacinque perché allungata a braccio tutte le sere.
Il film che fa da spartiacque, come già detto, è I due orfanelli, ma nei mesi successivi si viene delineando il grande successo che farà di Totò il divo numero uno del cinema italiano grazie a film come Fifa e arena che esce nel ‘48 e conquista il quinto posto nella classifica dei maggiori incassi, Totò al giro d’Italia, anch’esso del ‘48, che si aggiudica l’ottavo posto, I pompieri di Viggiù del ‘49 che figura al quarto posto.
Totò al giro d’Italia è in realtà una storia particolare, perché oltre a portare sulla scena veri campioni del ciclismo, idoli indiscussi ancora oggi come Bartali, Coppi e Bobet, rappresenta il diavolo come mai lo avremmo immaginato: un distinto signore, educato e gentile, che parla bolognese e ama i tortellini.
Certo, per un tipo superstizioso come Totò non deve essere stato semplice vendere l’anima al malefico ricattatore, ma alla fine l’amore trionfa sempre, e Totò si trova fra le braccia di una giovane e bellissima Isa Barzizza.
A dire il vero, l’esperienza di Totò al giro d’Italia, in cui erano coinvolti molti autentici assi del pedale appunto, non fu facilissima perché Totò non si alzava mai prima di mezzogiorno e Mattiòli si ritrovava in montagna con i campioni che imprecavano perché dovevano correre e il comico non arrivava mai facendo innervosire tutti.
Naturalmente, orari a parte, Totò era molto suscettibile e pronto a prendersela se non lo si trattava con il dovuto riguardo. Mattòli — che non ha mai avuto il dono della simpatia, dell’umana comunicativa — qualche volta era particolarmente spicciativo e usava anche con il grande comico l’offensivo intercalare di “coso”. Totò si arrabbiava moltissimo:
“Io non sono coso, sono il principe”.
Negli anni Cinquanta si colloca il trittico scarpettiano di Mario Mattòli — Un turco napoletano del ‘53, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi del ‘54 — che era stato preceduto un paio di anni prima da Sette ore di guai di Metz e Marchesi, trattò dalla farsa ‘Na creatura sperduta.
Se Un turco napoletano e Il medico dei pazzi hanno dei buoni momenti, Miseria e nobiltà è ormai un classico per la felice aderenza con cui ripropone l’alchimia, insieme tragica e buffonesca, del grande testo di Eduardo Scarpetta, che molti considerano una delle vette del teatro comico di tutti i tempi.
La messa in scena di Mattòli accentua i consueti ingredienti (macchina fissa, mai troppi carrelli, niente audaci escogitazioni tecniche, niente bellurie di regia) nell’intento di suggerire l’antico palcoscenico in cui si svolge la rappresentazione teatrale, che il mezzo cinematografico ha soltanto il compito di riproporre.
Il boom di Totò non poteva essere più clamoroso, anche sul piano del risultato economico.
Tra i registi di Totò, accanto a Mario Mattòli, che nel dopoguerra ne intuì le inesplorate potenzialità cinematografiche, merita un posto di primo piano Carlo Ludovico Bragaglia, che aveva incontrato il principe sin dai tempi di Animali pazzi.
Nel giro di pochi anni, tra il ‘49 e il ‘50, sforna film di diseguale valore e nella stagione successiva interpreta ben sei film, tra cui Totò cerca casa, che raggiunge il secondo posto in classifica, e L’imperatore di Capri (il sesto), .
Nella stagione 1950-51 il clamoroso successo continua ancora con altri film, tra cui Totò sceicco, 47 morto che parla, Napoli milionaria, Figaro qua… Figaro là, che si collocano entro i primi dieci posti della classifica dei maggiori incassi.
Fra questi 47 morto che parla ci regala alcune fra le battute più celebri di Totò, rimaste nella storia del cinema e nella vita quotidiana di ognuno di noi.
“…E io pago”
È un tormentone ormai. È la frase che il Barone Antonio Peletti ripete quotidianamente al servo Gondrano (un giovanissimo Carlo Croccolo)
Tirchio da far paura, a tal punto da chiedere l’affitto ad un mendicante che sosta vicino casa sua, è cinico, dispettoso e sospettoso di chiunque voglia portargli via il tesoro ce gelosamente custodisce.
“ Buongiorno cavaliere, lei campa ancora? Quanti anni ha? Novantasette? Mi pare che lei stia esagerando. Si decida, si decida.”
Inviso e all’intera comunità cittadina, come lui stesso avrà da dire di un’altra persona
“Era un uomo così antipatico che dopo la sua morte i parenti chiedevano il bis.”
Nemmeno il cavallo di famiglia si salva dalla tirchiaggine del Barone, che ne approfitta subito per farne bistecche.
Il rapporto tra l’attore napoletano e il regista ciociaro era particolarmente buono, fondato sulla reciproca stima.
Naturalmente, Bragaglino conosceva bene la pigrizia di Totò , attore profondamente istintivo che talora non leggeva nemmeno il copione e non voleva sapere niente del film che doveva interpretare, affidandosi completamente alle straordinarie qualità della sua inventiva estemporanea.
La prima cosa che Totò chiedeva quando arrivava sui set per fare una scena era
“Che aggia fa’?”.
L’abilità del regista consisteva nel prenderlo di sorpresa perché una volta dategli le indicazioni per la scena, non si potevano fare delle prove perché perdeva la concentrazione.
Si doveva quindi mettere le luci, predisporre la ripresa con una controfigura e poi far venire Totò, che di solito andava benissimo al primo ciak e già meno bene al secondo. Se qualcosa non aveva funzionato, si rifaceva tutto daccapo anche se era una faticaccia.
Alla fine di ogni scena la troupe aveva preso l’abitudine di applaudire perché si era accorta che il principe, abituato all’applauso in teatro in cui stava a contatto con il pubblico, mal sopportava la freddezza della lavorazione cinematografica e solo dopo l’applauso si entusiasmava e lavorava con piacere.
Se l’applauso non veniva spontaneo, Bragaglia non esitava a organizzare una claque di macchinisti, elettricisti, attrezzisti.
Appena finita la scena, facevano grandi applausi che gli davano la carica e lo facevano lavorare con lena tutta la giornata.
Il primo grande successo della collaborazione tra Totò e Bragaglia è Totò le Mokò,(1949) che il regista aveva inizialmente pensato come una trasposizione di Pepé le Mokò, il noto film di Duvivier con Jean Gabin, nell’ambiente napoletano.
La trovata avrebbe dovuto consistere nel collocare le imprese del bandito della casbah tra i vicoli e i bassi di Napoli, quindi non in una scenografia romanzesca attinta dalla tradizione letteraria e cinematografica, ma in un paesaggio vero, brulicante di vita e di realtà in cui la miseria e l’arte di arrangiarsi erano la prima fonte d’ispirazione.
Il copione avrebbe dovuto essere scritto da Eduardo De Filippo, con cui il regista aveva già fatto tre film e che sarebbe stato in grado di cogliere le tensioni e gli umori del dopoguerra napoletano, l’intreccio di antichi malesseri e di nuove calamità.
Ma il progetto purtroppo sfuma, anche per i tempi superveloci di questo tipo di produzioni, che devono risolvere tutto in due, tre settimane al massimo.
Il film si muove sul binario già collaudato della parodia tra le scene e i fondali della casbah ricostruita a Cinecittà, in cui Totò, musicista ambulante di poca fortuna, viene chiamato a dirigere la banda di Pepé le Mokò. Quando Totò ordina ai suoi di predisporre gli strumenti per il debutto al Grand Hòtel, tutti pregustano un grosso colpo.
Non appena Totò tira fuori la bacchetta per dare il via al concerto, felice di dirigere finalmente una banda importante, i malviventi fanno uscire dai loro astucci i mitra e le rivoltelle con cui ordinano agli ospiti dell’albergo di consegnare i gioielli.
Solo alla fine, dopo una serie di equivoci e di gag particolarmente felici che sono la vera forza del film, Totò riesce ad avere la meglio e a incassare anche la taglia per la cattura del redivivo Pepé, con cui può tornare a Napoli per dare vita a una vera banda musicale.
In tutti questi film sono stati utilizzati entrambi i registri, quello surreale e quello realistico.
Si pensi a Totò cerca casa del ‘49, ispirato alla crisi degli alloggi di grande attualità negli anni del dopoguerra ma pieno di citazioni della buffoneria surrealistica delle “torte in faccia” oppure a Totò e i re di Roma del ‘52, che rivisita con umori acri e grottesche sottolineature l’universo ministeriale degli impiegati, dei capi ufficio, degli scatti di stipendio in un clima mortificante e jettatorio da Gli esami non finiscono mai, o ancora a Totò e le donne, dello stesso anno, che cuce insieme una serie di siparietti sull’eterno femminino, chiamati a confermare le teorie misogine del cavalier Scaparro, il quale, esasperato dalle imposizioni di una moglie invadente e bisbetica, cerca rifugio in soffitta dove può fumare, leggere i gialli, rivolgere preghiere propiziatorie al tabernacolo che ha eretto all’immagine di Landru.
Quando la coppia si separa, Steno e Monicelli realizzano, ciascuno per proprio conto, numerosi altri film con Totò, accentuando l’una o l’altra delle costanti del grande comico. Steno puntando soprattutto sulla componente surreale imparentata con le origini teatrali, Monicelli proseguendo nella umanizzazione del personaggio avviata con i film precedenti, più legati agli spunti d’attualità e alla verosimiglianza delle situazioni.
Il risultato più alto raggiunto da Steno è senz’altro Totò a colori del ‘52, singolare summa dei grandi sketch teatrali, dal vagone letto agli snob di Capri, dall’eccezionale Pinocchio al gran finale del direttore d’orchestra.
Ma andrebbero ricordati anche gli altri titoli degli anni successivi. A iniziare da L’uomo, la bestia e la virtù del ‘53 da Pirandello, con uno spaesato Orson Welles; Totò nella luna del ‘58 con Ugo Tognazzi in cui ancora una volta Totò si sdoppia, interpretando un altro sé stesso ingenuo e un po’ tonto, approdato sul pianeta terra dritto drtto dalla Luna; Totò, Eva e il pennello proibito del ‘59 con Abbe Lane e Mario Carotenutoi cui Totò interpreta Antonio Scorcelletti, celebre copista del Goya che finisce, suo malgrado, fra le grinfie di due furbacchioni e fa sfoggio di una delle sue battute più celebri
“Lei è un cretino, s’informi”
I tartassati del ‘59 con Aldo Fabrizi; Letto a tre piazze del ‘60 con Peppino De Filippo e Nadia Gray, una storia tutt’altro che moderna, quella del reduce che ritorna a casa dopo anni in cui è creduto disperso e si trova a dover fare i conti con una realtà totalmente cambiata.
Sempre del ’59, per la regia di Mauro Bolognini altro titolo da citare è Arrangiatevi! film che trae spunto dalla chiusura delle case chiuse avvenuta l’anno precedente a causa delle legge Merlin.
Venne girato in una autentica ex casa chiusa in via Fontanelle Borghese suscitando le rimostranze di alcuni deputati e anche se il ruolo di Totò è secondario, formidabili sono i duetti con Peppino , l’amico e collega ritrovato.
Arrangiatevi! è una commedia in cui si evidenzia senza timori i limiti dell’Italia pre-boom, quella che con fare bigotto, provicialotto e superficiale, giudica chi con coraggio – ma anche con fatica e timore, ossessionati dalla rispettabilità e morale dell’epoca – tenta di andare oltre le apparenze e i pregiudizi.
Un passo in più nel superare retaggi culturali e sociali arcaici e limitanti.
Questo obiettivo trova il suo culmine nella scena finale in cui Totò, affacciato dal balcone, fa una menata ai cittadini cercando di convincerli che ormai è inutile lasciarsi andare ai ricordi e alla nostalgia.
Attimi in cui lo spettatore sembra percepire un senso di libertà.
Negli anni successivi la singolare fortuna del divo — che raccoglie i suoi maggiori favori presso il pubblico di periferia e di provincia — non accenna a diminuire se fino alla stagione 1956-57 almeno un film di Totò continua a essere compreso nella graduatoria dei primi dieci film di maggiore incasso.
Anche negli anni Sessanta, in cui la totomania sembra avere sbollito i suoi più acuti furori, il magico nome di Totò è ancora una garanzia per vastissimi strati del pubblico popolare.
Straordinario divo dei poveri, Totò è stato il personaggio più famoso e amato di oltre un ventennio di cinema italiano, in cui ha profuso le sue singolari qualità in una serie di film confezionati per il consumo esclusivo del pubblico meno esigente, di cui seppe cogliere come nessun altro le tensioni, le aspirazioni e le frustrazioni.
La travolgente parabola comincia con il già citatoFifa e arena che rifà il verso alla mitologia tipo sangue e arena delle corride, dei toreador, dei banderilleros, del pubblico esultante, delle miliardarie americane facili all’eccitazione; così come Totò sceicco riprenderà l’epopea della legione straniera e della casbah, strizzando l’occhio al mito di Atlantide e alla tradizione della letteratura romantica saccheggiata dal cinema francese e americano.
Totò parodiava sempre qualcosa o qualcuno, gli basta un berretto per calarsi nella parte del macchinista folle di Toto tarzan che guida sino a Genova un treno diretto a Bari, eccolo chiudere gli occhi a una curva pericolosa o saltare dalla gioia dopo aver superato un lungo tunnel, non sa usare né cosa sia un telefono ma è felice, e si diverte un mondo. Sono film sgangherati in cui domina il gusto di camuffarsi, di trasformarsi, di travestirsi.
Eccolo che gioca con il ventaglio in Figaro qua… Figaro là, temibile suora cappellona in Totò e Peppino divisi a Berlino, procace condomina che civetta con Luigi Pavese, il padrone di casa di Tototruffa ‘62, che ci regala l’indimenticabile momento della vendita della Fontana di Trevi e che diviene, ancora una volta, manifesto delle incredibili capacità trasformistiche dell’attore, capace di essere qualsiasi personaggio.
Totò risolve tutto nella mimica, nella obliquità permanente dello sguardo, nella inesauribile mobilità di un volto che può atteggiarsi nella bonomia o scatenarsi nella cattiveria, nella mobilità disarticolata del corpo che si fissa nel manichino de I pompieri di Viggiù o si libera nel Pinocchio di Totò a colori, nel finto pazzo di Totò all’inferno, straordinarie sedimentazioni di una lunga esperienza teatrale fondata sulla scansione dei movimenti, sui ritmo dei tempi scenici, sulla matematica delle entrate e delle uscite.
Anche il suicidio diventa parodia, se la vita fa schifo, ma poi si pente
“se avessi immaginato che l’inferno era così, non mi sarei suicidato”
L’inferno viene immaginato come una sorta di sfida fra bolgie dove il mal capitato viene riconosciuto come reincarnazione di Marc’Antonio e viene spinto da Belfagor tra le braccia della bella Cleopatra. L’incontro tra i due viene malvisto proprio da Satana, geloso della donna, così Totò, per sfuggire alla sua ira, scappa nuovamente sulla Terra, trovandosi coinvolto in vicende improbabili.
Prima finisce in un gruppo di pseudo esistenzialisti, poi costretto a fare il rapinatore, a sposare una ragazza siamese e infine a fingersi pazzo. Alla fine delle sue peripezie ricade comunque negli inferi condannato ad una pena atroce, salvo poi risvegliarsi all’improvviso dal sogno di cui era rimasto vittima.
La straordinaria fortuna cinematografica di Totò non si spiega se non si tiene conto dei registi che stavano dall’altra parte della macchina da presa, e cioè di Mario Mattòli, di Carlo Ludovico Bragaglia, di Steno, di Mario Monicelli, che assieme a uno stuolo di sceneggiatori hanno accompagnato il glorioso cammino del Principe tra le platee traboccanti del dopoguerra, degli anni Cinquanta e poi degli anni Sessanta.
Particolarmente riuscito è La banda degli onesti del ‘56, scritto da Age e Scarpelli, che pur riprendendo spunti ampiamente collaudati è notevole nel rappresentare i timori e le frustrazioni, le impennate e i malumori di un bonario terzetto di apprendisti falsari che sperano nel colpo grosso, continuando a guardarsi attorno con sospetta circospezione tra la portineria del casermone in cui vivono e la modesta tipografia in cui stampano le prime banconote.
Non sono meno esilaranti Totò lascia o raddoppia? del ’55 di cui parleremo più avanti, Totò, Peppino e i fuorilegge del ‘56, Totò, Peppino e la… malafemmina dello stesso anno che, ispirato alla canzone Malafemmena dello stesso Totò, è oggetto di culto tra i totomani, se non altro per una scena in particolare: quella della dettatura della lettera tra i fratelli Caponi, in cui Totò e Peppino toccano vertici altissimi sul piano dei tempi di recitazione e della sintonia scenica, non a caso ripresi nell’omaggio che Massimo Troisi e Roberto Benigni tributano loro nell’analoga scena di Non ci resta che piangere.
Totò, Peppino e la… malafemmina ci ha lasciato scene memorabili, sfatando luoghi comuni che in quegli anni erano davvero radicati nell’immaginario collettivo, come la nebbia a Milano
“Se a Milano, quando c’è la nebbia, non si vede, come si fa a vedere che c’è la nebbia?”
o la difficoltà di comunicare con chi è considerato “straniero”
“Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss…ja..”. Vigile: “Eh, ma bisogna che parliate l’italiano, perché io non vi capisco”
Con Corbucci regista e sceneggiatore considerato, insieme a Sergio Leone è considerato uno dei maestri dello spaghetti western invece, Totò abbraccia commedia amara con I due marescialli, sterza verso il patetico con Lo smemorato di Collegno, ma non smette mai di puntare sulla parodia con Totò, Peppino e… la dolce vita, Chi si ferma è perduto, Il monaco di Monza e Gli onorevoli.
Naturalmente si tratta di parodie spudorate, in cui tutto è lecito purché sia ricondotto sul piano della caricatura assoluta, della pura astrazione comica, che fra stravolgimenti linguistici e sbeffeggiamenti surreali si accanisce distruttivamente nei confronti del modello dissolvendolo dall’interno, rendendolo progressivamente irriconoscibile, impraticabile.
Uno fra tutti, Totò, Peppino e… la dolce vita è la parodia della pellicola girata l’anno precedente da Federico Fellini La dolce vita riutilizzando gran parte della costosa scenografia di via Veneto allestita per quel film.
“La vita è fatta di cose reali e di cose supposte: se le reali le mettiamo da una parte, le supposte dove le mettiamo?”
L’intesa tra il vecchio attore e il giovane regista non poteva essere più perfetta, fatta com’era di grande rispetto e di ammirazione per quel mondo dello spettacolo di una volta, degli sketch e dei doppi sensi mai volgari, che era fondamentale per capire Totò. Un vero signore che non diceva le parolacce e che, quando nei copioni ce n’era una, si affrettava a toglierla (per acquistare la filmografia quasi completa di Totò, clicca qui).
Totò e la televisione
Il primo incontro di Totò con la televisione risale al 1956, l’anno di Lascia o raddoppia?, della rivista Lui e Lei di Marcello Marchesi, del varietà a caccia di volti nuovi.
Primo applauso condotto prima da Silvana Pampanini
“Speriamo che l’applausometro salga, salga…”
e poi da Enzo Tortora, della rubrica paleoetologica L’amico degli animali con Angelo Lombardi e del collegamento in Eurovisione da Montecarlo per le nozze di Grace Kelly con il principe Ranieri.
Il programma di quiz presentato da Mike Bongiorno e Edy Campagnoli è cominciato ufficialmente nel novembre dell’anno precedente e per parecchi anni paralizzerà l’Italia tutti i giovedì sera alle ore 21.
La televisione non poteva sfuggire a Totò almeno quanto Totò non avrebbe potuto sfuggire alla televisione. Non c’è aspetto della modernità, novità del costume, cambiamento d’umore della moda che non siano stati assimilati nel corso del suo cinema onnivoro degli anni Cinquanta e Sessanta, contaminato con i contrassegni e le impennate della vita quotidiana.
Totò lascia o raddoppia? è un film di Camillo Mastrocinque di quel fatidico 1956 in cui la televisione italiana, nata da un paio d’anni, conosce con il programma a quiz di Mike uno dei suoi primi, grandi successi fino a preoccupare i gestori delle sale cinematografiche che, per fronteggiare la concorrenza, al giovedì sera mettono dei grandi televisori davanti allo schermo.
Gagliardo della Forcoletta è un duca squattrinato, ex ufficiale di cavalleria e intenditore di cavalli, ridotto a vivere di espedienti nei campi di corse. Contando sulla profonda conoscenza dell’ippica s’iscrive a Lascia o raddoppia?, nella speranza di vincere al concorso televisivo e poter così consentire di sposarsi a una figlia naturale, scoperta per caso dopo tanti anni.
Coinvolto in un pericoloso palleggio tra due loschi italo-americani che scommettono su di lui e a scopo intimidatorio lo rapiscono a turno, il duca non sa più cosa fare. Quando viene portato di peso nello studio televisivo, torna dalla paura e, rispondendo alle domande di Mike, non sa quello che dice.
Senza neppure accorgersene, continua a indovinare le risposte, fino alla vittoria finale di cinque milioni. Il vero Mike Bongiorno e la vera Edy Campagnoli, la prima mitica valletta, sono travolti nel festeggiamento generale con cui si conclude la trasmissione.
Lo scambio di battute di Totò e Carlo Croccolo, e cioè del duca e del suo cameriere Camillo, fotografa la quizmania alle origini, quando era ancora impensabile che saremmo diventati, di gioco in gioco, un popolo di concorrenti.
“Duca….dica”
Il duca e il cameriere stanno facendo le prove prima della trasmissione con una candela al posto del microfono e un armadio come cabina.
“Ecco, questo è il microfono”.
“No, questa è un candela”.
“E lo so che è una candela, in questo momento funge da microfono. Hai visto quello lì che tiene l’affare in mano. Sì… funge, è una finzione!”.
E poi ancora il povero Croccolo, sempre fedele nel ruolo del servitore senza paga
“Quando mi dà lo stipendio?”
“Questa domanda non è pertinente, è una domanda impertinente, e per questa impertinenza io ti do duemila lire di multa e uno schiaffone”.
Soltanto dieci anni dopo l’attore rincontra la televisione, che nel 1966 — lo stesso anno in cui è ospite di Mina a Studio Uno in una memorabile serata durante la quale Totò, piegatosi ad angolo acuto, risale sfiorando e delineando con la sua bombetta le forme sinuose di Mina — mette in lavorazione una serie di telefilm pensati per la tv dagli sceneggiatori Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi.
Le riprese avvengono negli studi del teatro delle Vittorie dall’inizio di gennaio fino al 10 aprile dell’anno successivo, e cioè fino a pochissimi giorni prima della morte di Totò.
Il Principe sta già piuttosto male, può lavorare poco, non più di quattro ore al pomeriggio, è particolarmente lento nel doppiaggio perché vede pochissimo e deve accontentarsi dei rari frammenti che coglie sullo schermo.
Ma nonostante tutto, sul set il vecchio leone viene fuori ancora una volta dando a tutti l’impressione di padroneggiare la scena come nessun altro, di essere perfettamente in grado di dirigersi da solo.
Sia negli antichi sketch teatrali, compagni di un’intera vita, scaramantici portafortuna che sembra poter rifare anche a occhi chiusi, sia nelle nuove situazioni che gli vengono offerte e nelle quali si butta senza risparmio con un entusiasmo da “prima volta”.
Il latitante è una sconclusionata incursione nel mondo della malavita, tra furbi e profittatori, in cui appare anche Gino Cervi nel ruolo del commissario. La scommessa gioca sulla supertimidezza del protagonista, attirato in un appuntamento galante dalla moglie del principale, ma si risolve nell’incontro-scontro con Walter Chiari, un match a base di gag e battute, una gara di trovate.
Il tuttofare riprende lo sketch del parrucchiere per signora che risale alla rivista Bada che ti mangio! ma è stato riproposto anche in numerosi film.
Il fisico inizia a cedere
Nel 1956 quindi, Totò aveva praticamente tutto: una compagna che l’amava, due nipotini che gironzolavano per casa, è ricercato dai produttori e amato dal pubblico, ma il suo primo amore, il teatro, lo chiama, e lui prontamente risponde.
Torna sulle scene ed accetta di esibirsi al Sistina con l’impresario Remigio Paone nello spettacolo A prescindere che registra il tutto esaurito per intere settimane di programmazione.
Il destino però non aveva ancora terminato di giocare con il Principe e proprio durante le repliche dello spettacolo, tornò in albergo con un gran febbrone: polmonite virale.
Avrebbe dovuto restare a letto alcuni giorni, ma tutta la compagnia era ferma e Totò sapeva bene cosa volesse dire per un piccolo attore non recitare e non guadagnare, perciò si lasciò imbottire di antibiotici ed andò comunque in teatro.
Era dietro le quinte ad aspettare di andare in scena quando dovette chiedere una sedia ed il suo fisico cedette.
I biglietti furono rimborsati e a Totò furono intimati 15 giorni di riposo assoluto. Durante la notte non gli riuscì di dormire, pensava a tutti coloro che avrebbero visto sfumare il lavoro se la tournée fosse saltata, così il mattino dopo, di nuovo chiamò Paone e comunicò che lo spettacolo sarebbe ripreso.
Portò a termine le recite a Milano e così nelle altre città finché una sera durante una cena in cui avevano festeggiato il matrimonio di due ballerini a cui Totò aveva regalato una 500 “affinché li trasportasse insieme per il resto della vita”, vide ballare le pareti ed i tavoli, conseguenza dei potenti antibiotici e con il passare dei giorni, i disturbi si fecero anche più seri.
La tragedia si concluse sul palcoscenico del Politeama di Palermo, la figlia Liliana lo aspettava dietro le quinte e dopo lo sketch di Napoleone, Totò uscendo dalla scena disse alla figlia che gli tendeva la mano:
“Sono cieco, non ci vedo più”.
Totò rientrò in scena e nessuno in sala si accorse di nulla; accelerando i tempi, portò a termine il suo compito, avviandosi, ad intuito verso le quinte.
Scaricò la tensione in una mimica selvaggia che fece andare in delirio il pubblico e uscì addirittura più volte a ringraziare la platea e il loggione illuminato a giorno che lui non poteva vedere.
Fece la passerella di corsa trotterellando, con tutta la compagnia dietro che lo seguiva, mentre sapeva e tremava.
Uscì dalla scena e le recite furono sospese per sempre. Dovette persino sopportare la visita fiscale inviatagli da parte da Paone o dal direttore del teatro che pare non credessero alla sua cecità.
Un occhio era stato compromesso anni prima del distacco della retina, nell’altro erano intervenute decine di piccole emorragie, ed infine una centrale che gli impediva di vedere.
Fu forte Totò come solo sanno essere coloro che hanno dovuto contare solo su stessi ed affrontare con slancio ostacoli per altri inimmaginabili: si adattò alla nuova situazione e riprese a lavorare proteggendo sempre gli occhi con degli occhiali scuri che toglieva solo sul set.
Gli avevano detto che quel po’ di vista che aveva recuperato gli sarebbe rimasto e così per non sentirsi un uomo ferito e per farsi carico delle richieste sempre più pressanti della famiglia, di cui si era sempre fatto carico non si fermò mai.
Al rientro a casa pianse quando non poté vedere Gennaro il pappagallo cavaliere che gli volava incontro dal trespolo, si perché più che gli esseri umani, Totò amava gli animali e non ne faceva mistero, soprattutto i cani
“Amo tanto gli animali per il semplice motivo che li trovo migliori degli uomini”.
Ma se questa affermazione un po’ superficiale oggi trova riscontro in molte persone, Totò arrivava ad esasperarla:
“Mangio più volentieri con un cane che con un mio simile. Come commensale è meglio un animale fidato che un falso amico”.
Innumerevoli le sue donazioni ai canili cittadini. E le dichiarazioni di sfiducia nei confronti di chi la beneficenza la ostenta o la scarica dalle tasse:
“Se per aiutare il prossimo rinunci a qualcosa, fai veramente del bene. Altrimenti che bene è?”.
E d’altro canto, la sua generosità economica non è mai mancata, nemmeno per quei buffi animali degli umani.
Totò si dimette da presidente di giuria al Festival di Sanremo del 1960
Totò nel 1959 appena ripresosi dalla malattia che lo aveva colpito agli occhi, Totò fu invitato dagli organizzatori del Festival di Sanremo a presiedere la commissione giudicatrice con il compito di scegliere le canzoni da ammettere alla manifestazione canora.
Accettò nonostante la cecità rifiutando però (da vero gentiluomo, corretto e generoso qual’era), il gettone di presenza giornaliero di 50mila lire che all’epoca corrispondeva ad uno stipendio mensile medio.
Ebbe tuttavia una polemica con gli altri membri della commissione per l’ammissione di una canzone da lui molto apprezzata intitolata Parole e questo lo portò addirittura ad abbandonare il Festival prima della conclusione della selezione.
In seguito in un articolo apparso sul settimanale Oggi il 24 dicembre del 1959 dal titolo
“Non faccio l’uomo di paglia per Sanremo”spiegherà i motivi di una simile decisione”
Il Principe spiegò dettagliatamente le sue ragioni nella lunga intervista
“Ho accettato una carica credendo che essa comportasse lo svolgimento di precise funzioni: nell’istante in cui mi sono accorto d’essere in errore, l’ho abbandonata. Tutto qui(…) Conoscevo troppo bene l’ambiente del Festival per non sapere che rischiavo di andare incontro a discussioni, proteste, inimicizie o, in una parola, a un’infinità di grane. Alla fine, purtroppo, cedetti alle insistenza del mio carissimo amico Radaelli, e accettai. Sulle prime, non ebbi a pentirmene (…)
Nel corso di una serie di sedute massacranti, scartammo oltre trecento canzoni e ne riservammo novantanove per la seconda selezione (…)
A furia di ascoltarle, le avevamo imparate a memoria, (…)
Fu durante quest’ultima votazione che scoppiò il cosiddetto conflitto fra me e gli altri membri della commissione. E fu allora che me ne andai (…)
Comunque stiano le cose, però, io mi rifiuto di ammettere che il presidente di una commissione come quella del Festival possa essere considerato una figura decorativa o, peggio ancora, un fantoccio. E, soprattutto, non ammetto che la parte del fantoccio tocchi a me (…)
La commissione non volle tener conto del mio parere e me lo dimostrò in maniera tale da farmi credere che il suo atteggiamento suonasse sfiducia a me, come presidente. Che altro potevo fare, se non abbandonare la seduta?
(…)La decisione di lasciare la presidenza divenne irrevocabile solo dopo che ebbi constatato che i membri della commissione, non contenti di aver respinto il mio suggerimento, pretendevano che io modificassi la mia opinione e mi sottomettessi alla loro, firmando il verbale conclusivo.
(…)Quanto a me, sono sinceramente dispiaciuto dell’incidente. Non dovevo accettare. Oltre a tutto, avevo molti impegni e molti guai con l’abbassamento della mia vista, che non è stato uno scherzo. Ogni lavoro, in questi ultimi mesi, è stato un sacrificio per me, ogni movimento mi è costato una lotta con i medici che continuavano a prescrivermi il più assoluto riposo. E la presidenza della commissione di Sanremo non me l’avevano certo prescritta i medici. “
Il declino
Nel 1963, diretto da Steno, interpreta I due colonnelli, il titolo fa riferimento al film del 1961 I due marescialli, di cui Totò era stato protagonista assieme a Vittorio De Sica.
Celebre il dialogo tra il maggiore Kruger ed il colonnello Di Maggio:
“Badate colonnello, io ho carta bianca”
“E ci si pulisca il culo!”
Totò, lo sappiamo bene, nella sua intera filmografia è stato sempre garbato nei modi e nelle parole, e girare una scena del genere, con quella battuta decisamente “volgare”, non era proprio nelle sue corde.
Così il genio Steno, per convincerlo a pronunciare la parola incriminata, lo rassicurò che le urla dei soldati italiani avrebbero coperto la battuta e il Princie accettò.
Nonfece però i conti con il fatto che il gruppo di soldati, a differenza sua, non aveva il microfono, così la battuta venne fuori forte e chiara, contro ogni suo principio etico e morale.
Nel 1966 Il sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici gli assegna il secondo Nastro d’argento per la sua interpretazione del film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini. Per questo film Totò ha una menzione speciale al Festival di Cannes.
Ormai quasi cieco, ma sempre ricco di amore per la vita, Totò partecipa al film Capriccio all’italiana, negli episodi Il mostro e Che cosa sono le nuvole sempre di Pier Paolo Pasolini, ma il 14 aprile interrompe la lavorazione e nella notte di sabato 15 aprile subisce un gravissimo infarto.
L’incontro con Pier Paolo Pasolini è tra i più inattesi e sorprendenti dell’intera biografia artistica del grande attore, oltre che uno dei più produttivi sul piano creativo. Quando Pasolini va a casa di Totò per incontrarlo, con un’umiltà che pochi altri avevano avuto prima di lui, è già uno scrittore famoso attorno al quale c’è aria di scandalo.
Se ne era andato da Casarsa, dove faceva l’insegnante, quando alla vigilia delle elezioni del ‘48 un ragazzo aveva confessato al parroco di aver avuto rapporti con lui.
Venuto a Roma con la madre, aveva fatto la fame prima di cominciare a lavorare a qualche sceneggiatura. Il suo primo grande successo letterario l’aveva ottenuto a metà anni Cinquanta con Ragazzi di vita e Una vita violenta, dove aveva raccontato la realtà “diversa” del sottoproletariato romano.
Poeta incoronato, il passaggio al cinema aveva rivelato un autore di grandi qualità con film notissimi come Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo. Sul settimanale Vie Nuove dove tiene una rubrica di corrispondenza con i lettori, ha appena pubblicato il soggetto del film che comincerà a girare nell’ottobre e che s’intitolerà Uccellacci e uccellini.
Il primo impatto tra il principe e lo scrittore non è esaltante. Pasolini è scortato da Ninetto Davoli, che nel film sarà il figlio di Totò.
Ninetto, riccioluto come una pecorella, non fa ancora l’attore, indossa un vecchio paio di jeans sporchi e stinti e gli sembra un sogno essere lì con Totò, di cui aveva visto tutti i film, significava stare vicino a un mito. Non appena lo vede sbotta a ridere, nonostante le gomitate di Pier Paolo, che gli dice:
“Oh, sta’ bono, carmate”.
Si mettono in poltrona per prendere il caffè in attesa che si avvii una discussione che stenta a decollare. Lo scontro tra timidi consente appena di parlare, tra le lunghe pause di imbarazzato silenzio, del progetto del film che dovrebbero cominciare di lì a poco.
Quando si congedano, il Principe non può trattenere un respiro di sollievo e spruzza dell’insetticida sul posto occupato da Ninetto, quei jeans zozzi gli fanno senso, non li sopporta proprio.
In realtà non condivide neppure la stessa moda dei jeans che considera qualcosa di straniero e lontano dal suo gusto, ma avrebbe di sicuro preferito che almeno fossero stati puliti.
Sul set tuttavia, le cose andarono molto meglio, soprattutto tra Totò e Ninetto che stavano sempre assieme e si erano molto immedesimati nei ruoli di padre e figlio.
Il principe aveva preso in simpatia quel ragazzone allegro che aveva sempre fame e non si sentiva per niente intimidito di fronte a lui. Lo aiutava nel lavoro, porgendogli la battuta, mettendosi d’accordo su come risolvere un’azione, mettendolo a parte dei suoi ricordi e dei suoi umori nelle lunghe pause tra una ripresa e l’altra in cui qualche volta si metteva a cantare o recitava A livella.
La disinvoltura di Ninetto favorì anche i rapporti tra Totò e Pier Paolo, che continuavano a darsi del lei e a trattarsi con reciproca deferenza, imprigionati nella loro timidezza.
La diffidenza del primo incontro era ormai superata e il Principe ha la massima fiducia nel regista, nella sua preparazione e nella sua cultura, gli si affida completamente da quando ha capito che sta facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva fatto prima con lui.
Quando una sera, rincasando stanco e infreddolito dopo una giornata di lavoro, Totò dice che Pierpa’ gli ha fatto ripetere una scena soltanto due volte, si capisce che il sodalizio cinematografico si è trasformato in amicizia.
Il film viene girato tra ottobre e dicembre nella campagna vicino a Roma, il principe non si tira indietro e affronta le scene più faticose, cammina nel fango, affonda nella melma i pesanti zoccoli di legno coperto soltanto da un saio di sacco che lascia passare il freddo e il vento da ogni parte.
L’episodio francescano dell’evangelizzazione degli uccelli viene girato nella campagna vicino a Tuscania, tra i boschi, ed è particolarmente faticoso. Ci vogliono ventisette ore di riprese per fare le tre inquadrature di Totò con gli uccelli sugli alberi, sempre con il saio di sacco e i tremendi zoccoli di legno ai piedi. L’unico problema fu il corvo ammaestrato che durante tutta la lavorazione ce l’aveva con gli occhi di Totò e cercava di beccarlo proprio lì.
Naturalmente, Totò se ne preoccupava moltissimo perché da anni il suo problema erano proprio gli occhi. Fu necessario mettere del nastro isolante nero sul becco dell’uccello, in modo che, così impastoiato, non tentasse più di beccare nessuno. Naturalmente quand’era lontano o stava a terra il nastro gli veniva tolto, ma Totò, che ci vedeva così poco, non se ne accorgeva e con un po’ di apprensione continuava a chiedere:
“Quella bestia, che fa quella bestia?”.
Il corvo è destinato a fare una brutta fine anche nella storia del film, che comincia con Totò e Ninetto, padre e figlio, che si aggirano per le borgate. Il loro viaggio non ha un vero e proprio inizio né una vera e propria fine. Camminano, parlano tra loro della vita e della morte, si imbattono in una coppia di suicidi e in una ragazza-angelo, senza meravigliarsi di nulla da quegli innocenti che sono.
Uccellacci e uccellini deve molto della sua straordinaria forza poetica e della sua duratura efficacia alla reinvenzione del personaggio Totò, scelto da Pasolini come espressione tipica del sottoproletariato napoletano, risultato di secoli di miseria e di fame, ma insieme anche puro e semplice clown, il burattino snodabile e disarticolato, l’uomo dei lazzi imprevedibili e degli sberleffi esilaranti.
Il Totò di Pasolini è tenero e indifeso, dolcissimo e innocente. Se prende in giro qualcuno lo fa in modo garbato e mai volgare, senza aggressività. Anche i rapporti tra Totò e Ninetto sono privi di ogni conflitto generazionale, di ogni forma di rivalità. Pasolini li vede come campioni di umanità, vecchi e nuovi al tempo stesso, due personaggi che rappresentano la massa innocente degli italiani estranei alle trasformazioni della storia.
Il film esce nel maggio 1966 e suscita sin dall’inizio discussioni e polemiche, anche se è quasi unanime il riconoscimento dei grandi risultati raggiunti da Totò. Quando nello stesso mese il film viene presentato al Festival di Cannes, le discussioni riprendono sulla Croisette ma il film ottiene una menzione speciale proprio per l’interpretazione di Totò.
Il viaggio più lungo e i tre funerali
Era la primavera del 1967, l’Italia del governo di Aldo Moro; il fedele Caffiero entrò nella sua stanza per fargli ascoltare la registrazione della Livella che aveva tanto atteso, ma trovò un Antonio stanco ed affaticato sprofondato sulla poltrona.
Accusava disturbi gastrici tanto che Franca Faldini chiamò Liliana per dirle che suo padre non stava bene, poi chiamò la produzione per comunicare che quel giorno Totò non si sarebbe recato sul set.
Totò intanto si era rasato come sua abitudine ed il dott. Cusumano l’aveva appena visitato, quando Liliana arrivò da lui le fu detto che si trattava solo di qualche noia intestinale, ma nulla di preoccupante.
Totò aveva iniziato a fumare quando era adolescente e non aveva più smesso anzi, nei momenti più delicati in cui i medici gli consigliavano di smettere, lui aveva continuato a fumare senza interruzione anche sessanta sigarette Turmac al giorno a cui accostava una quindicina di caffè a cui non volle mai rinunciare.
Il resto della giornata trascorse tranquillo per Totò al riposo nella penombra della sua stanza. Giunse anche il responso delle analisi in cui tutto sembrava in ordine con gran sollievo di tutti e Totò stesso tornò di buon umore.
Intorno alle sette e mezza Franca Faldini gli stava imboccando un po’ di cena per non farlo affaticare, quando lanciò un urlo straziante; aveva perso nella stessa maniera il padre poco tempo prima, così comprese subito cosa stesse accadendo, sudore e pallore, il cuore stava cedendo.
Era il primo di una serie di infarti che si susseguirono accompagnati da lancinanti dolori e da grida.
Intorno alle 23:00 Totò riuscì a fare un cenno a Franca perché si avvicinasse
“Sono stato bene assai con te Ravachol, ”
“T’aggio voluto bene Franca, proprio assai”
Verso le due e mezza Totò sembrò tornare lucido e resosi conto che la fine era vicina si strappò dal viso la maschera dell’ossigeno, gli elettrodi e la flebo, verso le tre e mezza il suo cuore cedette definitivamente e spirò.
La nera signora come Totò chiamava la morte non l’aveva mai preoccupato, lo preoccupava piuttosto invecchiare, ma nonostante ciò, con i primi risparmi, aveva comprato una cappella per se e per la sua famiglia con una targa che riportava solo la sua data di nascita ed in bianco quella di morte.
Capitava spesso che Totò provasse ad immaginare le sue esequie e ci ironizzasse sopra: sarebbero state belle assai piene di parole, di elogi, avrebbero scoperto che era stato un grande attore.
Come al solito la preveggenza di Totò non sbagliava di molto per due giorni, il 15 ed il 16 la salma fu vegliata dalle principali personalità dello spettacolo, sfilarono a Via dei Monti Parioli 4 in silenzio e con commozione anche coloro che erano stati suoi detrattori in vita.
Migliaia di romani, persone semplici mescolate a grandi attori ed intellettuali si avvicendarono in silenzio nel lungo corridoio che immetteva nella camera da letto.
Alcune persone furono addirittura colte da malore, ci furono quattro feriti, due donne e due agenti, in seguito all’enorme scompiglio causato, per aver avuto lo spavento di vedere lì in mezzo alla folla, Totò vivo.
In realtà si trattava solamente di Dino Valdi, la sua controfigura.
Il primo telegramma a giungere alla Faldini fu quello del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, Federico Fellini ricoverato dettò alla stampa un messaggio commovente, Pasolini che si trovava in Marocco per le riprese di Edipo Re disse che Totò:
“Ci era stato rubato”,
a rendergli omaggio tra i primi giunsero Franco Franchi e Ciccio in Grassia, Luigi Pavese, Alberto Sordi, Mario Mattoli, Steno, Mario Monicelli.
Nonostante l’attore avesse sempre espresso il desiderio di avere un funerale semplice, ne ebbe addirittura tre: uno a Roma, uno nel Rione Sanità a Napoli, e infine il più importante, sempre a Napoli, nella cappella di Sant’Eligio e sebbene la bara fosse vuota, c’era la stessa immensa folla del primo funerale.
La Chiesa era gremita fino all’inverosimile e fu così necessario far uscire il feretro dalla porta della sagrestia e caricarlo sul furgone che lo condusse al Cimitero del Pianto, dove il corpo venne inumato vicino a quello dei suoi genitori, di Massenzio e di Liliana Castagnola e dove tutt’oggi riposa.
“Avere paura della morte è da fessi”
diceva con il sorriso amaro che era di Antonio. La prima cosa che comprò con i primi guadagni fu proprio la cappella dove oggi riposa insieme ai suoi cari.
La tomba di Totò è ad oggi una delle più visitate d’Italia, a lui vengono indirizzati bigliettini che riempiono la sua tomba, che riportano fiduciose preghiere per risolvere i problemi dell’esistenza o chiedere favori, mani sconosciute portano fiori freschi di continuo.
Se Totò è al giorno d’oggi considerato da tutti un attore di fama internazionale, non lo stesso può dirsi per il periodo immediatamente successivo alla sua morte.
Totò passò nel dimenticatoio fino agli anni Settanta, quando con la diffusione della televisione scoppiò un vero e proprio boom sulla sua figura artistica, circostanza che determinò di conseguenza la sua immensa e postuma fortuna.
Di cose su Totò se ne potrebbero dire davvero tante; era sicuramente un attore fuori dal comune, una personalità scomoda contro la quale si è continuato a remare anche dopo la morte; ed ancora oggi in molti tentano di stroncare la sua fama incontestata, denigrandone la figura.
Ma nonostante i biechi tentativi di boicottaggio, quello che è assolutamente indubbio è il fatto che Totò è stato, è ancora oggi e sarà sempre, un genio senza pari.
Il suo maggior pregio era senz’altro quello di riuscire a parodiare sempre qualche cosa, muoveva sempre da uno spunto e si divertiva ad aggredirlo, a distorcelo, a deformarlo. Si è divertito a rifare qualcosa di già esistente, che liberante reinterpretava, facendolo diventare l’occasione di una e personalissima in cui sfogare una comicità insieme distruttiva e sorniona, irresistibile e sfuggente.
Era la sua grande forza. Non resta molto di un personaggio o di un mito dopo che Totò lo ha attraversato, rovesciandolo dall’interno e facendosene beffe. Gli basta tirare in su o in giù la parrucca per cambiare personaggio, per capovolgerne il significato.
Come un burattino irriverente era capace di recitare con tutto il corpo, che appariva snodabile e in grado di assumere mille posizioni. Dotato di una irresistibile mimica facciale, riusciva a roteare gli occhi e a fare straordinarie smorfie, allungando il collo e snodando la mandibola in modo da spingere il mento tutto da un lato. E sapeva burlarsi di persone e situazioni assumendo atteggiamenti buffi e stralunati, che esplodevano in maniera prorompente anche quando cercava di apparire serio e posato, però lasciando talvolta affiorare una vena di tristezza.
Sulle scene Totò parodiava i ricchi non solo nel modo di vestire, ma anche nel modo di parlare, storpiando le parole e costruendo frasi che ribaltavano in modo beffardo le espressioni forbite di una persona istruita. Nel suo strampalato modo di esprimersi Totò stravolgeva l’ordine delle parole in una frase, così come, con il corpo, stravolgeva l’ordine delle membra:
“Parli come badi”
oppure ne rovesciava o ne confondeva il senso:
“Lei è un paziente che non ha pazienza!”
“Soldati, richiamati, riformati… vi ho radunato in questo pubblico deserto…”
o equivocava sul loro vero significato:
“lei con quegli occhi mi spoglia… spogliatoio!”
spesso utilizzando parole dal suono stravagante, come bazzecole, quisquilie, o inventandone di nuove, come pinzillacchere.
Dal 1937 al 1967 Totò interpreterà 97 film visti da 270 milioni di persone, record che non ha eguali nella storia del cinema italiano; tutto questo nonostante fosse un uomo maleddetamente pigro.
L’alba per lui sorgeva a mezzogiorno e, se non si lavorava, si metteva in movimento intorno alle cinque del pomeriggio; se lavorava, una clausola speciale nel contratti, gli consentiva di attaccare alle due.
Aveva un immenso rispetto per il teatro e per questo motivo, quando attraversava il palcoscenico, si toglieva il cappello.
Amava improvvisare. Provava i suoi sketch solo a due giorni dal debutto, poi, ogni sera apportava qualche modifica al momento.
Lui è stato, è e sarà l’immenso, il grande, l’insuperabile TOTO’.