Se gay e trasgender da noi non se la passano bene, c’è dove se la passano ancora peggio. Il regista pakistano Wajahat Abbas Kazmi ha presentato al Corto Dorico Film Festival il suo documentario sulla battaglia impari che sta combattendo la comunità LGBTIA (ai LGBT si sono aggiunti “Intersex” e “asexuals”) in Pakistan, una repubblica islamica che, come tutti gli stati confessionali, mal sopporta che esista anche chi non corrisponde agli standard della propria religione o, almeno, a quello che hanno deciso siano gli standard della propria religione. E tutte le religioni monoteiste moderne, che sono le più diffuse, sono fieramente omofobe. Oddio, nella chiesa cattolica ora uno spiraglio c’è, ma Papa Francesco è un marziano; una volta che non ci sarà più lui tutto ricomincerà da capo. Allah loves equality ha il patrocinio di Amnesty International e documenta i soprusi dei quali è vittima la comunità LGBT:
“dall’indipendenza del Pakistan nel 1947, la comunità Lgbt ha subito ogni forma di mortificazione sociale e difficoltà”: pestaggi, stupri, omicidi e discriminazioni sociali, per esempio, le sole attività concesse ai trasgender per sostentarsi sono: “chiedere l’elemosina, danzare o prostituirsi”.
Wajahat Abbas Kazmi è un attivista dei diritti umani e, oltre a filmare le molte testimonianze delle vittime della discriminazione, dimostra che, nel passato, l’islamismo non aveva mostrato alcun pregiudizio legato al sesso. Pare che sotto l’Impero Moghul i trasgender ricoprissero ruoli importanti, era frequente il crossdressing e l’omosessualità era un argomento comune in letteratura, un po’ come nell’antica Grecia. Il documentario è specifico, quindi è ovvio che non vi si accenni, ma mi piacerebbe sapere se sotto l’Impero Moghul anche le donne godessero di privilegi che l’islamismo fondamentalista moderno non concede più. Comunque sia, l’islamismo non è nato omofobo, ne consegue che, come dice Kazmi, Allah loves equality, il problema è farlo capire a chi non è d’accordo – e comanda.