Se c’è un’espressione più ottusa di “resilienza” al giorno d’oggi, più pedante di un Crepet che boicotta lo streaming perché Canale 5 è meglio, questa è certamente la pluri-abusata banalità del male di arendtiana memoria, onnipresente in qualsiasi recensione di Adolescence da qui alla fine dei tempi e, probabilmente, vergata da redattori che chissà mai se l’han letto davvero il saggio del 1963 dell’amichetta di Heidegger.
A difesa degli intrepidi colleghi, però, che come il sottoscritto la Arendt manco l’hanno aggiunta al carrello Amazon, ammetto che nel caso specifico la definizione possa essere calzante.
Eh già, non l’avresti mai detto che se un 13enne pugnala una coetanea lo fa per motivazioni da quattro soldi, vero? E invece sappilo, i motori delle azioni dei 13enni sono spesso stupidi. Figuriamoci quando uccidono.
Adolescence, il piano sequenza di un dramma corale
In vetta alle serie TV più viste su Netflix per qualche tempo e, al momento in cui scrivo, relegata al 5⁰ posto in classifica, la miniserie diretta da Philip Barantini è il racconto corale di un fatto di cronaca nera, esplorato in tutte le implicazioni sociologiche e psicologiche sottostanti, a partire dall’arresto del sospettato, il 13enne Jamie Miller, ben interpretato dal giovanissimo Owen Cooper.
(Consiglio la visione in originale almeno di qualche scena, il doppiaggio lo rende più bambino di quello che è).
E proprio l’irruzione della Polizia in casa Miller, capitanata dall’Ispettore Capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e dalla Sergente Capo Misha Frank (Faye Marsay), dà il via alle danze, non prima, tuttavia, che la nostra Misha si lamenti dell’odore di “digestione” del collega, unico momento francamente incomprensibile dell’ottimo Episodio 1.
Un singolo piano sequenza per tutta la puntata (e che risulta perfetto per la serie anche nelle successiva, meno nelle ultime due), dallo sfondamento della porta d’ingresso a mitra spiegati sino alle procedure burocratiche in caserma, in cui lo spettatore, suggestionato da una regia claustrofobica, non può che essere partecipe dello sconcerto dei Miller, la cui casa all’alba viene messa a soqquadro dagli agenti in cerca di prove, e il cui secondogenito viene prelevato con l’assurda accusa di omicidio.
Una scena emotivamente forte, che fa da traino all’ora abbondante del capitolo iniziale, in cui ci si trova confusi e col cuore a mille, quasi nei panni di Eddie (Stephen Graham) (anche ideatore della serie), quel padre dello Yorkshire che vuol credere alla professata innocenza del figlio perché non può far altro: il suo bambino glielo ha giurato.
Un momento struggente, da poesia del Pacciani, peccato che lì, a differenza delle colline toscane, vi siano telecamere pronte a immortalare il delitto.
Adolescence, tra cultura incel e ambiente familiare
Dovrebbe essere chiaro: Adolescence non è un thriller sul cosa è successo, ma sul perché è successo.
E a portare sulla giusta via l’Ispettore Capo un po’ boomer ci penserà il figlio Adam (Amari Bacchus), con una spiegazione sul significato delle emoticon di Insta decisamente goffa a livello di sceneggiatura, ma utile a simboleggiare la distanza esistenzial-comunicativa tra gli analogici di una volta e i nativi digitali attuali.
In pratica, in ottica di cyberbullismo, sui social a Jamie veniva dato dell’incel, termine in voga nel nuovo millennio per indicare i celibi involontari, ossia uomini eterosessuali privi di successo con le donne, tendenzialmente vergini in quanto brutti, almeno secondo la vulgata internettiana.
Questi, una volta redpillati, nello stereotipo diventerebbero ostili a qualsiasi forma di emancipazione femminile, con la pretesa di restaurare un ordine gerarchico tra i sessi, stile, chessò, anni ’50, con la prospettiva che norme etico-morali da vecchio Novecento possano essere la strada da percorrere per una maggiore redistribuzione delle donne, cosicché ogni uomo (o quasi) possa avere una compagna come in passato, siccome le fanciulle, istintivamente, sarebbero attratte solo da un numero limitato di maschi.
In assenza della realizzazione di queste istanze passatiste e con lo scherno da parte delle donne, scatterebbe la rabbia incel, che spazia dal commento acido all’assassinio.
È una semplificazione, un riassunto poco accurato, ma è quel che ho capito dalle mie scorribande online.
Quasi superfluo aggiungere che questo schema valoriale toglie ogni soggettività alle donne, relegate a essere oggetto della Storia, succubi delle contese e degli accordi di un mondo unilateralmente sotto il potere maschile.
Ma financo più pleonastico è rilevare come sia senza senso considerare/considerarsi celibe involontario a 13 anni, con l’appiattimento a una unica dimensione di situazioni completamente diverse nei dibattiti in rete.
Un mondo, quello digitale, figlio di quello fisico, che, assieme a tante cose buone, può portare al parossismo modi di pensare già latenti in società, senza neppure un’adeguata supervisione di adulti consapevoli.
In questo senso si inserisce l’Episodio 3, successivo al 2 dell’ambiente scolastico, dove i 52 minuti sono dedicati esclusivamente al quinto colloquio di Jamie con la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty), 7 mesi dopo il giorno dell’omicidio.
Domande sul padre, sul nonno, su tutte le figure familiari che hanno contribuito a plasmare l’immagine di mascolinità in Jamie, al di là dello spauracchio online del citato Andrew Tate, icona della manosfera più esagitata.
Forse una puntata sfibrante, senza la dinamicità delle precedenti, svolta quasi tutta in una stanza, ma che pone un altro tassello nel puzzle, un altro fattore nell’equazione.
Una famiglia come tante, nello specifico, con modelli maschili né migliori né peggiori di molte altre, che nell’epilogo dell’Episodio 4 vede Eddie e Manda (Christine Tremarco) rifugiarsi nella camera del figlio, con l’angosciante rimorso di non aver capito, di non avere fatto di più per prevenire la tragedia, emblema di genitori estranei al cosmo da smartphone dei teenager.
Adolescence, si tirino le somme
Insomma, Adolescence, soprattutto in relazione agli standard di Netflix, è certamente promosso, con una regia senza stacchi e utilizzo di droni assolutamente all’altezza, unita a interpretazioni notevoli e a temi di scottante attualità.
Certo, i dialoghi sono validi, ma non sono assenti linee che sanno di frasetta già fatta, alcune quasi una tassa Netflix per timbrare di essere dalla parte giusta del mondo, altre non scritte al meglio e basta.
Super coinvolgente l’Episodio 1, che rasenta la perfezione per ciò che vuol rappresentare, molto godibile l’Episodio 2, che, al netto dei difetti accennati nel paragrafetto precedente, presenta in modo interessante il microcosmo scolastico.
Meno appassionanti, ma comunque buoni, l’Episodio 3 e l’Episodio 4, i quali, seppure siano fondamentali per dare tridimensionalità alla vicenda, non hanno troppo da dire per la durata complessiva, con un brodo che pare allungato, come se per esigenze stilistiche il regista non li avesse accorpati, affinché fosse preservato l’unico piano sequenza di ciascuna puntata.