La nuova serie Netflix ACAB, uscita da poco sulla piattaforma sembra gridar a gran voce verità e contrapposizioni che si celano dietro a un sistema polarizzato e molto complesso da gestire e raccontare.
Michele Alhaique, il regista, lo fa attraverso un uso di inquadrature potenti e allo stesso tempo alienanti, puntando su dettagli e punti di vista che trapassano lo schermo e arrivano dritti allo spettatore con una carica emotiva e psicologia contrapposta. Scava dritto nel passato e nel presente dei personaggi, regalando un buon prodotto filmico che pecca a volte su la chiarezza di cosa veramente si voglia rappresentare e quale messaggio si nasconde davvero dietro gli scenari.
A prestare soccorso alla percettibilità emotiva dei personaggi e delle loro convinzioni, si aggiunge un cast valido, che trova degli spunti alternativi ed empatici per comunicare con lo spettatore e con la macchina da presa. Tutto si avvolge tramite una fotografia attenta e minuziosa che mette in luce dinamiche più intime e pudiche come gli scenari familiari e in ombra i luoghi sconosciuti e infidi, dove i cellerini prestano servizio per calmare o riportare all’ordine pubblico.
In ballo ci sono temi importanti e complessi da raccontare in soli sei episodi, anche se con estrema semplicità e intuizione vengono discretamente portare in scena, e manovrate con moderata chiarezza. Tra cui l’abuso sessuale, la decontestualizzazione delle colpe, il divario tra Polizia di Stato e quella di governo, e poi ancora la giustizia, la violenza, la vendetta personale e ultimo ma non per importanza la violenza domestica.
Un’intreccio di trame che rispettivamente vengono assegnate ad ogni personaggio, ognuno diverso tra loro che possiede storie e convinzioni intriganti e svariate. Generando in realtà una confusione generale su ciò che il film vuole raccontare e imporre, sicuramente al centro c’è la violenza dove in tutti casi, e sono tutti innocenti ma allo stesso tempo colpevoli.
ACAB: la trama
Una notte di feroci scontri in Val di Susa. Una squadra del Reparto Mobile di Roma resta orfana del suo capo, che rimane gravemente ferito. Quella di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante), però, non è una squadra come le altre, è Roma, che ai disordini ha imparato ad opporre metodi al limite e un affiatamento da tribù, quasi da famiglia.
Una famiglia con cui dovrà fare i conti il nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), figlio invece della polizia riformista, per cui le squadre come quella sono il simbolo di una vecchia scuola, tutta da rifondare.
Come se non bastasse il caos che investe la nuova formazione nel momento di massima fragilità interna, si aggiunge quello dato da una nuova ondata di malcontento della gente verso le istituzioni.
Un nuovo “autunno caldo” contro cui proprio i nostri sono chiamati a schierarsi e in cui ogni protagonista è costretto a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e della propria appartenenza alla squadra.
ACAB: un misto tra suspense e momenti piatti
In generale il prodotto funziona bene, la trama è ben sviluppata e si allaccia in modo efficace alla continuità narrativa. Anche se, a volte da momenti di pura tensione e suspence si passi a momenti piatti dove poi si genera una colluttazione tra emozioni contrastanti. Un’altalena che fa con constantemente su e giù, si interseca con momenti pieni di carica emotiva e altri piatti dove pathos e esigenze psicologiche si distruggono in personaggi effimeri e che vengono lasciati al caso.
Come ad esempio la moglie di Pietro, il comandante rimasto gravemente ferito in Val di Susa. Dalla narrazione si evince un piccolo accenno della situazione matrimoniale dei due, nulla però è specificato o raccontato, tutto si palesa tramite accenni e dialoghi. Una rappresentazione che in realtà dà un riflessione e un esempio in più da trattare e affrontare nella serie. Ma comunque il personaggio ha poca voce, e sparisce da un’episodio all’altro.
Ci sono molte scelte autoriali discutibili, che mettono profondamente in crisi il pensiero dello spettatore che si trova poi nel divario dove capire chi il buono e chi è il cattivo. Chi è innocente e chi no. Ma pian piano la chiave di tutto questo salta all’occhio. La violenza che sia usata nel caso di giustizia e non, non è comunque mai giustificata. Anche se a volte usata per vendetta, per proteggere un proprio collega oppure per proteggere una figlia.
Inizialmente il ritmo narrativo regge molto bene, e cattura subito l’attenzione e la curiosità lasciando scoperto il finale del primo episodio che genera poi il tipico click per riprodurre il secondo. Una suspence che però man mano si perde e diventa sempre più piatta soprattuto verso gli ultimi episodi che viste le circostanze potevano essere più cariche emotivamente e più coinvolgenti.
ACAB: una regia interessante e una fotografia d’effetto
Tecnicamente ACAB si propone come un buon prodotto a livello tecnico. Una gestione ottimale di inquadrature e della luce e dei colori che forse funzionano più dei personaggi e della storia stessa. Infatti questa volta ad emergere è la costruzione scenografia, che pur se semplice e lineare ed è eseguita con cura, portando a 360 gradi riflessioni emotive e psicologiche degli eventi e degli scenari.
A volte la macchina da presa si ferma in un punto stabile e riprende azioni di violenza e scene da dietro vetri o finestre di locali. Come nel caso della sommossa a Via del corso dove il caos viene ripreso da una finestra di un bar, una presa di posizione oggettiva che regala allo spettatore una visione concreta e imparziale, trasportandolo direttamente sul luogo.
Pochi primi piani, se non quelli dove i personaggi si trovano ad affrontare i fantasmi del passato e del presente, e dove l’interazione con le proprie sensazioni emotive diventa viscerale e punto d’indagine per lo spettatore.
A volte il ritmo temporale narrativo si spezza per dare spazio a inquadrature in dettaglio, che creano un legame profondo con le tematiche affrontate. La ripresa dei dettagli che quasi sempre avviene dopo scene particolarmente potenti, è necessaria e diventa spazio narrativo che dà spunto a riflessioni emotive ed empatiche degli scenari ed eventi raccontati. Nulla è lasciato al caso, e tutto è collegato da un filo diretto. Ad esempio il primo piano sul piatto rotto, nella scena famigliare di Michele, indica parallelamente la rottura della loro vita dopo il tragico evento legato alla figlia. Lo spettatore è giudice di tutta la storia e viene forzatamente chiamato in causa a indagare e riflettere su ciò che sta vedendo.
La regia si serve di riprese dall’alto e dal basso per creare distacchi emotivi che trafiggono direttamente lo schermo e arrivano al giudizio dello spettatore. Gioca su vari punti di vista, ad esempio la cinepresa diventa la bodycam su cui si registra il processo occultativo da parte della celere nei confronti dei manifestanti di Val di Susa.
Le atmosfere del campo operativo dove la polizia interviene, vengono tenute sempre sotto toni scuri e cupi con atmosfere turbanti e all’unisono. Non c’è mai piena luce nelle scene ma solo contrasti. L’uso dei colori e delle luci segue l’impatto emotivo disturbante e di tensione. Ad accompagnarle c’è l’elemento musicale che dà enfasi, soprattuto agli sfondi carichi di potenza emotiva e violenza.
ACAB: l’abuso di potere, la vendetta, lo stupro, la violenza domestica e l’eterno divario tra ciò che è giusto e no
ACAB affronta tematiche attuali e ricorrenti. Dall’abuso di potere e violenza da parte delle forze dell’ordine, fino allo stupro, e la violenza domestica raccontata nel caso di Marta, interpretata da Valentina Bellè, l’unica donna presente nella squadra mobile di Roma. Mamma single, che arriva da un rapporto travagliato e violento dell’ex compagno, da cui a avuto una figlia. Un personaggio non facile da raccontare ma che l’attrice riesce a incarnare con fermezza e controllo dando voce ha una linea sottile che collega il suo presente e passato facendo emergere tutti i punti critici della situazione.
E poi troviamo Michele Nobili, interpretato da Adriano Giannini, il nuovo capo della squadra mobile di Roma, che si trova a gestire un modus operandi opposto al suo che predilige più democrazia e controllo. Ideali e convinzioni che verrano rovesciati da un evento tragico, che colpisce la figlia. Tutto quindi viene nuovamente messo in discussione e la retorica del buono e cattivo si perde dentro la sfera emotiva e psicologica dei personaggi. Tutti sono innocenti, e tutti sono colpevoli.
Una serie di intrecci che si perdono l’uno con l’altro e la volontà di rappresentare qualcosa di attuale e all’ordine del giorno viene lasciato al caso, con svariati buchi narrativi. Tante tematiche difficili da affrontare e da dar voce sociale e imparziale, che a volte sfociano in meccanismi senza senso e senza alcun messaggio esplicito. Tutto deve essere per intuizione dello spettatore e quello che può sembrare una buona intenzione si rivela poi sciatto e inconclusivo.
Come ad esempio il tema dell’identità fake sui social e le conseguenti truffe, dove incappa il personaggio di Perluigi Gentile, Salvatore Lovato che scopre dopo una serie di strani casi, che la fidanzata conosciuta sul web non è altro che un profilo fake. Insomma un reato all’ordine del giorno che nella serie viene affrontato con superficialità e una svia narrativa ambigua.
Insomma un mix di buone intenzioni che pero vengono messe in discussione da una trama poco sviluppata e poco lineare, con scelte narrative che a volte cangiano poco con le situazioni da trattare. Sicuramente lo sviluppo è chiaro e molte vicende nella prima stagione rimangono aperte, senza un finale e quindi non si esclude che i personaggi, gli eventi possano avere un loro continuo in una seconda stagione.
Una prova riuscita un pò male che non sensibilizza ma si aggiunge all’ennesimo prodotto narrativo che vola fuori dal reale, toccando troppe cose in così poco tempo narrativo. Trasformandosi in una serie che spazia dal true crime, al poliziesco rendendo difficile il messaggio che alla fine sta alla base del progetto.