Finalmente al cinema il docufilm su Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Fuggita dalla prigionia dell’ISIS e divenuta un simbolo per la liberazione della comunità yazida
La storia di Nadia Murad è ormai nota: rapita e schiavizzata dopo un attacco dell’ISIS al suo villaggio di Kocho, nell’Iraq settentrionale, riuscì a fuggire, fortunosamente, quando un soldato dimenticò di chiudere a chiave la porta della sua casa-prigione. In seguito, è diventata ambasciatrice dell’ONU e ha vinto il Premio Nobel per la pace.
L’attacco dell’ISIS a Kocho e il conseguente genocidio, dal quale si sono “salvate” solo le ragazze dai 12 anni in su, per diventare schiave dei soldati, aveva lo scopo di cancellare la religione Yazida. Gli yazidi appartengono a una religione preislamica, probabilmente la religione originaria dei kurdi, con influssi zoroastriani e mitraici. Gli yazidi sono noti anche come “adoratori del diavolo” nomignolo che gli è stato affibbiato da cristiani e musulmani che ritengono, erroneamente, che il loro dio principale, Melek Taus, sia Satana. Per questo motivo sono già stati debitamente perseguitati, fino a quando l’ISIS ha deciso di farla finita in maniera risolutiva con gli adoratori di Iblīs.
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È difficile fare recensioni di film del genere, c’è sempre il pericolo di tirar fuori termini come “personaggio”, “figura”, dimenticandosi che si sta parlando, in realtà, di una persona. E questo sembra comune un po’ a tutti, a giornalisti come a conduttori radiofonici e a politici. Vedere Nadia come un’attivista, come vincitrice del Premio Nobel per la Pace è sicuramente giusto, è anche un riconoscimento dovuto. Però, non per questo deve diventare un personaggio. Nadia Murad rimane comunque una ragazza di 25 anni, che come tutti avrebbe sognato una vita normale. E questa è una delle tante cose che ho apprezzato del film. Vi sono intere sequenze che mostrano primi piani di Nadia dove la si lascia libera di parlare e, per una volta, non del dolore che ha provato, di che cosa pensa dei suoi stupratori (e questa davvero, ma che razza di domanda è?), di come si sia sentita o di cosa le sia stato fatto. Emerge il vero lato della ragazza, quello che deve soffocare a forza quando si trova di fronte ai rappresentati di 193 paesi o quando deve infondere coraggio in persone che credono in lei. Vi immaginate come si deve sentire una ragazzina quando le vengono dette cose come: “prendono la loro forza da te. Se tu piangi, loro piangono“? Sapere che così tante persone confidano in te e che ti considerano la loro unica speranza per cambiare le cose? La forza che ci vuole per consolare altre donne, bambini, uomini, senza crollare di fronte a loro? La trovo una cosa al limite del possibile, sarà che abbiamo più o meno la stessa età.
Invece, Nadia viene lasciata libera anche di parlare di se stessa, dei sogni che aveva – voleva aprire un centro estetico – e di quelli che ancora ha, nonostante tutto.
Nel film viene lasciato spazio anche a chi la sostiene da anni, come Murad Ismael. E anche questo è da apprezzare. Alexandria Bombach non ha voluto fare un film su Nadia Murad per renderla un’eroina, ma per raccontare la sua storia e quella degli yazidi.
Le considerazioni che non si può evitare di fare alla fine di questo film sono essenzialmente due
La prima riguarda l’abitudine, sempre più frequente, di non guardare la luna, ma il dito che la indica. È la stessa Nadia a osservare che tutti le chiedono di parlare delle proprie esperienze di persona scampata all’inferno, ma mai nessuno che le chieda di chi all’inferno ci sta ancora, degli yazidi nei campi profughi o delle ragazze che sono ancora schiave dell’ISIS. Viene il sospetto che l’attenzione che viene rivolta a Nadia non sia che un modo di alleggerirsi la coscienza, visto che, per gli yazidi, non è ancora stato fatto nulla di concreto. E speriamo che, ancora una volta sia la cultura, nel nostro caso il film di Bombach, più che la politica, a smuovere le acque. È già successo con Sulla mia pelle, titolo quanto mai simile a Sulle sue spalle, e speriamo che anche questo film faccia il miracolo.
Ci si potrebbe chiedere, ma è giusto che la comunità internazionale intervenga pesantemente negli affari di uno stato sovrano? Probabilmente no; ma allora qual è la differenza fra Saddam Hussein, Osama Bin Laden e l’ISIS? Nessuno si è fatto grandi scrupoli di invadere l’Iraq nel 2003, quando c’era da mettere le mani sul petrolio del Kuwait, Italia inclusa. Nessuno si è fatto scrupoli di intervenire in Croazia, nel 1994, e l’elenco potrebbe essere troppo lungo, per cui ci fermiamo. Poi, a dirle tutte, il proverbio cinese recita: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito“, ma a guardare il dito non sono gli stolti, ma i rappresentati delle più grandi potenze mondiali.
La seconda cosa che sono destinata a non capire mai è perché persone profondamente religiose, proprio in nome di quella religione che li rende “migliori degli altri”, perpetrino simili crimini. E non diamo la colpa esclusivamente all’ISIS; anche il buon vecchio cristianesimo, in questo senso, ha colpe che farebbero imbestialire anche un dio da quattro soldi. Altra cosa strana è che è vero che i paesi socialisti hanno oppresso le religioni presenti nel loro territorio ma, per l’appunto, non hanno mai sterminato nessuno per motivi religiosi. Era più facile che a pagarla cara fossero gli avversari politici.