La ritualità della cura
Uccelli in gabbia e la ritualità della cura, della pulizia; il canto, seguendo la radio. Questa vitalità amorevole e pacata appartiene a Cleo, la protagonista, a servizio della ricca famiglia con tre figli. Le vicende della famiglia si intrecciano alla vita personale di Cleo, rifiutata dal maschile che le era più prossimo e accolta dal femminile che la accudisce e ascolta.
La solitudine di queste donne in un mondo che perennemente nasconde insidie, anche quando dovrebbe tutelare, come nell’ambito familiare. E anche nel miracolo del grembo pieno si realizza l’abbandono.
L’acme emozionale del bosco in fiamme diventa occasione di narrazione poetica, attraverso il canto dell’uomo mascherato. E se quest’immagine evoca l’intensità simbolica di Fellini, i ritmi sembrano palesare l’influenza di Pasolini e di Antonioni. In quest’opera le pause sembrano concedere il riposo dell’anima che Antonioni raccontava in Al di là delle nuvole, creando un’armonia dove la pausa ha i significati più intensi. Eppure la passività di Cloe, al cospetto con la delusione, le difficoltà e la perdita, è quasi irritante, come alcuni dei personaggi femminili di Lars Von Trier.
Invece il mare, privo di vita, evoca una scena di Il settimo sigillo di I. Bergman e, non a caso, la morte che Bergman vestiva di nero, qui diventa lotta, nella scena più catartica di tutto il film, è proprio la morte che richiama alla vita, il senso di colpa espiato nell’azione eroica, enunciato in una sorta di trance liberatoria. A chiudere la storia un’immagine, un quadro, potrebbe essere un Sironi. Così, evoca tutte le scene di pausa in cui l’immagine si è fatta quadro, ci ha invitato all’attesa, alla contemplazione, all’ascolto di quel mondo femminile che non fa rumore eppure cambia il mondo.
Roma 2018. Film drammatico, 2h 15m. Leone d’oro alla 75 ° mostra d’arte cinematografica di Venezia.