La storia di un uomo alla ricerca di suo figlio, il racconto di un padre in cerca di redenzione.
Si sentiva il bisogno di una ennesima pellicola che trattasse il tema della perdita, del dolore, della vendetta personale?
Probabilmente sì se nessuna di queste tematiche, benché centrali nella trama, non appartengono propriamente alla struttura del film in questione.
Con Mio Figlio (Mon Garçon), siamo infatti su ben altri binari: sebbene la dinamica della storia sembri inizialmente percorrere la via della giustizia personale, subito se ne discosta, lasciando emergere il lato umano del protagonista (un Guillaume Canet al suo meglio), quello paterno e decisamente meno vendicativo.
Egli disegna una splendida figura di padre divorziato e poco avvezzo ai doveri familiari, che va in crisi, al pari di ciò che accadrebbe a ciascuno di noi, nel momento in cui il figlio Mathis viene rapito.
Pervaso dal senso di colpa, mosso dalla disperazione e con l’unico obiettivo di ritrovare il suo piccolo, Julien, questo il suo nome, si mette a caccia dei colpevoli noncurante degli sforzi della polizia, determinato a ricongiungersi col sangue del suo sangue, la sua sola ragione di vita.
Non un classico giustiziere solitario dunque, non un tipico antieroe, ma un uomo come tanti che la vita mette alla prova; non a caso, il regista dell’opera, Christian Carion, sceglie di rifarsi ai grandi maestri di quei film che si concentrano maggiormente sui risvolti psicologici degli interpreti: lo stesso Carion ha dichiarato di ispirarsi a Micheal Mann.
In conclusione, va ricordato come Mio Figlio costituisca un prodotto interessante anche in relazione ai tempi di realizzazione: girato in soli 6 giorni e con un protagonista che veniva informato poco a poco di quanto accadeva nella storia; una prova attoriale decisamente straordinaria che la dice lunga sul coinvolgimento emotivo manifestato da Canet e che vale senza ombra di dubbio il prezzo del biglietto.