The man who stole Banksy è un documentario che, raccontando del furto di un graffito su un muro, arriva a parlare di molto di più. Di street art, di mercati neri, di politica, di scontri religiosi e del conflitto israelo-palestinese.
Di Banksy sappiamo poco o nulla. Non sappiamo il suo nome, non conosciamo il suo volto. Gli unici indizi che abbiamo sono i tanti murales, provocatori e dai chiari messaggi politici, che compaiono sui muri cittadini. Infinite sono le supposizioni sulla sua vera identità; c’è chi pensa che Banksy sia un collettivo, altri che sia una donna. Molti sono convinti che sia il famoso artista Damien Hirst. Ma l’ipotesi che ultimamente va più di moda è che sotto il cappuccio nero di Banksy si celi Robert Del Naja, musicista e membro fondatore dei Massive Attack. Ma tutte queste sono supposizioni, nient’altro che supposizioni. Banksy resta fondamentalmente un mistero.
Ed è proprio l’anonimato a essere la più forte arma dell’artista. I media lo seguono ovunque, tutti lo cercano. E, in questo modo, Banksy può portare l’attenzione dove vuole. Si sposta da New York fino alla Palestina, con il chiaro messaggio di richiamare l’attenzione internazionale su una realtà che viene spesso ignorata.
Banksy in Palestina e il Donkey Documents
È il 2007 quando Banksy arriva con la sua squadra a Betlemme. L’obiettivo è la realizzazione di una serie di graffiti che raccontino, seguendo il classico stile ironico e provocatorio di Banksy, la situazione in cui versa la Palestina. Ed ecco che, sulla vasta barriera alta otto metri che separa la città da Gerusalemme, sorge il primo murales. Il Donkey Documents, il graffito in cui un soldato israeliano controlla il documento di identità a un asino. Un modo ironico, amaro, per denunciare le incredibili restrizioni cui i palestinesi devono sottostare ancora oggi per muoversi nei loro territori.
Una protesta non tanto rivolta al popolo palestinese o israeliano, quanto al mondo occidentale. Come dice il regista: “il vero scopo di Banksy era quello di parlare a noi e alla società occidentale della situazione palestinese, più ancora che ai suoi abitanti: quell’opera, fotografata e ripostata ovunque su internet, ha dato la possibilità a noi occidentali di riflettere sulla condizione palestinese, mentre ai palestinesi ha dato la possibilità di discutere di arte, in un posto dove l’arte non è considerata una priorità per ovvi motivi“.
Svariate furono le reazioni, anche degli abitanti stessi della città. Tanti i palestinesi che non compresero e che non gradirono, che si sentirono derisi e umiliati. Altri ne colsero il messaggio politico, altri, invece, lo videro come occasione per creare un nuovo, redditizio business. Tra questi vi era anche Walid, soprannominato “the Beast” per il suo fisico da bodybuilder, un tassista del posto che, senza perdere tempo, decise di staccare il tanto discusso pezzo di muro su cui si trovava il murales per poi rivenderlo al miglior offerente.
Da questa storia prende spunto Marco Proserpio per il suo documentario The Man Who Stole Banksy
Il documentario è narrato dalla voce graffiante di Iggy Pop e ha come sfondo più aree geografiche. Si viaggia tra Londra, Betlemme, New York, Copenaghen, Tel Aviv, Roma e Bologna.
“Volevo parlare della Palestina in modo diverso dal solito, presentando i palestinesi non tanto come vittime ma piuttosto come esseri umani, a volte anche controversi” spiega il regista, continuando “l’incontro casuale con Walid nel 2012, la prima vera volta in cui sono entrato in Palestina, mi è sembrato l’occasione giusta. Sapevo da subito che non ero interessato a Banksy o alla sua identità, quanto piuttosto alle domande che questa storia poneva“.
The Man Who Stole Banksy racconta la storia del murales trafugato, delle idee alla base della scelta di Walid. Mostra la Palestina sotto un punto di vista diverso, una Palestina fino ad allora ignorata dal resto del mondo e che all’improvviso si trova al centro dell’attenzione internazionale grazie a uno street artist e a un murales con un asino.
Tramite interviste a critici d’arte, giornalisti, professori universitari, galleristi, ma rivolgendosi anche ai personaggi che più di tutti sono stati protagonisti, indaga un nuovo grande mercato che è andato a crearsi. Un nuovo mercato illegale di opere di street art prelevate dalla strada e rivendute sul mercato mondiale. Ma il documentario è anche messaggio di come l’arte, in un paese controllato e oppresso, dove la libertà di espressione è assente, possa diventare veicolo di protesta e di comunicazione. “Dopo la prima intifada, i palestinesi non avevano alcun controllo dei media. Come potevano diffondere le loro idee politiche? Tramite i muri“.
Perché, come dice lo stesso Banksy: “Un muro è una grande arma. Ed è una delle cose peggiori con cui colpire qualcuno“.
Qua un’intervista al regista Marco Proserpio: Proserpio racconta il suo documentario