Selfie (s. m. o f. inv.) : autoritratto fotografico generalmente fatto con uno smartphone o una webcam e poi condiviso nei siti di relazione sociale.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2014 un ragazzo diciassettenne, Davide Bifolco, è in giro sul motorino assieme a due amici; tutti e tre sono senza casco. Al posto di blocco dei carabinieri il veicolo non si ferma, temendo le ripercussioni delle loro infrazioni: il carabiniere che presidia la volante dell’Arma scambia Davide Bifolco (incensurato) per un noto latitante della zona, facendo fuoco sul ragazzo e uccidendolo con una pallottola dietro la schiena. “Mi è partito il colpo per sbaglio“ affermerà poi l’uomo.
Nei giorni successivi al tragico evento, la morte di Davide Bifolco diventa un lutto collettivo. Per le strade del Rione Traiano, quartiere ‘difficile’ della periferia di Napoli, dove il giovane viveva ed è morto, si riversano tutte le persone che lo conoscevano e che gli volevano bene. Tutti i suoi amici, la famiglia, i vicini di casa addolorati gli rivolgono l’estremo saluto; al gesto si aggiunge perfino il maresciallo dei carabinieri che esprime la sua vicinanza per la perdita.
La tragica morte di Davide Bifolco assume, nel frattempo le dimensioni di un caso mediatico: la notizia fa il giro dell’Italia arrivando addirittura in Parlamento; nel quartiere, centinaia tra giornalisti e reti televisive accorrono sul posto per documentare l’accaduto. La stampa (sopratutto quella locale) non parla d’altro e così accade anche sui telegiornali, sulle emittenti radiofoniche e sui social web. In poco tempo, tutti vengono a conoscenza dell’accaduto e, come spesso avviene in questi casi, ognuno sente l’obbligo di sputare sentenze e dire la propria sui fatti, a prescindere di quanto sia effettivamente informato o coinvolto in essi.
“Molti giornalisti hanno detto parecchie fesserie” racconta il padre del compianto ragazzo in Selfie. La distorsione dei fatti è l’ovvia conseguenza di quel telefono senza fili che è il lavoro dell’informazione pubblica in questi casi, che riporta mezze verità, per sentite dire. La sensazione più amara, però è che questo maremoto di parole spese (con la parsimonia del peggior scialacquatore) sul caso dai media abbiano travolto il quartiere e dopo un po’ si siano ritirate quando le attenzioni su questo sono scemate, lasciando un vuoto di persone rimaste inascoltate e abbandonate.
Selfie ci insegna l’importanza di ascoltare
Tre anni dopo, il regista di documentario Agostino Ferrente (già noto per L’orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle) decide di ascoltare, anzi di far ascoltare tutte queste persone dimenticate. Al filmmaker viene un’idea brillante: affidare a due ragazzini di 16 anni – più o meno l’età in cui è morto Davide – un telefono per riprendersi e girare un film sul loro quartiere, il Rione Traiano.
Selfie, di fatto, è un documentario partecipativo (che in Italia si contano sulle dita di una mano monca) composto interamente dalle riprese dei due giovani protagonisti, Alessandro e Pietro, a cui si aggiungono brevi spezzoni video dei loro vicini e coetanei di casa e delle telecamere di sicurezza sparse nel quartiere (che filmano strade spesso semivuote, silenziose, evocative di quei luoghi della memoria un tempo affollate da grida e dolore per l’evento, come un 9 11 Memorial).
Alessandro e Pietro, legati da una fortissima amicizia, iniziano a girare in motorino, in casa, al bar, per le strade del Rione, alla sala biliardo del quartiere riprendendosi ininterrotamente con il telefono e raccontando così il Rione Traiano a modo loro. Nel film non ci sono riprese fatte da professionisti: Selfie è un film estremamente verace perchè raccontato con la genuinità di chi non ha competenze cinematografiche ma che ha un’infinità di cose interessanti da dire. Selfie – e quindi Alessandro e Pietro – riesce a riportare le vicende di Davide Bifolco e del problematico quartiere del Rione, molto meglio di come qualsiasi giornalista aveva fatto (o di come avrebbe potuto fare Agostino Ferrente stesso).
L’idea del regista, oltre che veramente originale (i documentari partecipativi in Italia si contano sulle dita di una mano) dimostra infatti un’umiltà encomiabile. In un’epoca in cui ognuno si sente in diritto e in dovere di dire la propria, Ferrente capisce che molto spesso è più saggio ed utile ascoltare, persino (o soprattutto?) ciò che hanno da dire due ragazzi di sedici anni, che conoscevano Davide così bene.
Il risultato di Selfie restituisce un diario inestimabile sulla speranza e sulla voglia di un futuro da parte dei ragazzini del quartiere. Spesso cresciuti in contesti familiari difficili, gravati da lutti e genitori in carcere, Alessandro, Pietro e gli altri traianesi invocano a gran voce di essere ascoltati e considerati dal mondo – e non solo strumentalizzati come merce per notizie clickbait da vendere al giornale o per aumentare lo share in tv- per quelli che sono: ragazzi con la volontà di perseguire una vita onesta e lontana dal mondo criminale, nonostante le tentazioni della strada “facile”.
“Ho provato a spacciare, ma non era cosa per me” ammette Francesco, un amico di Alessandro e Pietro, parlando alla videocamere a del telefono. I protagonisti – e registi – di questo racconto, oltre a mostrarci uno scorcio di vita nel Rione e a farci entrare in casa di Davide (che in tv riguarda i filmati del funerale del figlio) approfondiscono anche la storia di un’amicizia autentica che li lega.
I due ragazzi passano il tempo di un’afosa e noiosa estate riempiendola con qualche giornata al mare nei luoghi “irraggiungibili e aristrocratici” della città, come Posillipo; oppure andando a fare shopping “senza un euro” e provando una lampada abbronzante; ancora, parlando dei loro sogni e dei loro problemi da adolescenti, ora di argomenti futili, ora di cose divertenti, ora toccando discorsi profondi che denotano grande intelligenza e consapevolezza di sè stessi.
“Io nella mia vita voglio riuscire a vedere cosa c’è oltre questo muro” dice Alessandro, parafrasando la poesia L’infinito di Leopardi che gli era costata la bocciatura a scuola con conseguente abbandono “e se non riesco io, voglio che ci arrivino almeno i miei figli” acclamando a gran voce un futuro migliore.
L’inno di Selfie e dei suoi protagonisti, che echeggia in tutto il film, viene finalmente ascoltato dal pubblico. Il documentario viene presentato in anteprima mondiale al Berlin Film Festival del 2019, anno in cui vince altri numerosi riconoscimenti; l’anno seguente, Selfie è premiato al David di Donatello come miglior documentario di lungometraggio, vincendo anche il Nastro d’Argento. Anche la critica non può che tessere le lodi del film:
«Supereroi della verità, Alessandro e Pietro rendono ‘Selfie’ un documento imperdibile, la prova che, oltre ‘Gomorra’, c’è vita. Basta cercarla. E coltivarla.» (recensione di Fulvia Caprara su LaStampa, 30 maggio 2019)
Tutto ciò che fa Selfie è dare un’opportunità a chi non l’ha mai avuta e dare una voce a chi le parole le ha sempre e solo ricevute e subite, da chi spesso non li conosceva e soprattutto comprendeva. Oggi Pietro sembra più felice di come non era sette anni fa, anche se non ha coronato (ancora) il sogno di fare il barbiere; Alessandro, invece, sta coltivando il sogno di diventare un attore.
Dalla tragica notte di quel settembre 2014, sono passati ormai dieci anni. Il caso mediatico è ormai più che sepolto nonostante le iniziative di Amnesty International, ma anche quello giuridico che avrebbe dovuto processare il carabiniere che ha ucciso Davide Bifolco, si è concluso con un nulla di fatto (l’uomo, ad oggi, presta ancora servizio per l’Arma). “È la battaglia della formica contro l’elefante” erano state le parole dell’avvocato del ragazzo scomparso, per sottolineare l’invincibile guerra di un ragazzo qualsiasi, contro lo Stato.
“A tutti i Davide Bifolco del mondo” è la dedica finale del film.