Di recente Netflix ha rilasciato una nuova docu-serie basata sul crime che ha sconvolto l’Italia e il mondo intero. Parliamo di Yara Gambirasio, la giovane tredicenne scomparsa a Brembate nel lontano 2010. Una sera di novembre, il 26 precisamente, qualcuno grida un nome, Yara, le urla incessanti, paura e stupore. La voce tremante di Fulvio Gambirasio intento a cercare la figlia nella palestra in cui si allenava, era una promessa della ginnastica ritmica, ormai in procinto di spegnersi. Era entrata per allenarsi alle ore 17:30, poco dopo non si ha più traccia di lei, scomparsa nel nulla. Nessuna risposta. Il telefono squilla ma della piccola nessuna traccia…
Il caso Yara: Oltre ogni ragionevole dubbio, è una versione diversa, da quella proposta in passato da Marco Tullio Giordana con Yara (2021), un film che ripercorre le indagini, i processi e la scoperta del colpevole: Massimo Bossetti. Invece Gianluca Neri porta in scena una serie, articolata in più episodi, testimoniando tutti gli errori e le continue crepe che ci sono state nell’indagine del caso più mediatico di cronaca nera.
Quello che non sapevamo o forse, arriva a toccare le nostre coscienze, l’assassino di Yara sta davvero scontando la sua pena? Quell’uomo Massimo Bossetti, il mostro disegnato dai media, è colpevole ogni ragionevole dubbio?
Il caso Yara: ancora oggi un fenomeno mediatico
La serie ha sconvolto il web tanto da diventare un’argomento dibattuto soprattutto nel social TikTok. La nuova generazione ricorda bene quel lontano novembre, i mesi incessanti di ricerca e finalmente giustizia, per Yara e la sua famiglia. Telegiornali, programmi televisivi, quella foto di una giovane ragazza sorridente e accanto il suo killer.
Viene sempre quasi mostrato nella foto in cui è ritratto con i suoi animali, uno sguardo cupo, quasi infelice, e poi il video, quello che ha spaventato molti, angosciante, quel furgoncino che si gira più volte intorno alla palestra dove Yara si allenava. Un quadro perfetto quello rinvenuto dalla pm Letizia Ruggeri, all’epoca a capo delle indagini, soltanto che la realtà ci porta ad altre verità e il puzzle ancora oggi non risulta essere completo.
L’omicidio di Yara Gambirasio: i continui colpi di scena
Dal ritrovamento della stessa vittima dopo tre mesi di ricerche, nel febbraio 2011, in un campo aperto a Chignolo d’Isola. Da lì il sospetto che il cadavere fosse stato sempre lì sotto gli occhi di tutti, e che la stessa ragazza sia stata violentata e lasciata morire lì. Qui il primo problema, molti cacciatori della zona, battevano quella pista, ma nessuno aveva visto niente, e da alcune immagini riprese mesi prima da dei droni, della presenza del corpo non ce ne era traccia. Ma la perizia medico-legale sul corpo afferma che l’aggressione e il decesso siano avvenuti in quel luogo.
La giovane viene ritrovata completamente vestita, con indosso gli stessi abiti del giorno della sua scomparsa, le scarpe slacciate e un lembo degli slip reciso e lasciato penzolante fuori dai leggings. Sul cadavere vengono rilevati numerosi colpi di un oggetto contundente, tra cui un trauma cranico, una profonda ferita al collo e almeno sei ferite da arma da taglio.
Nessun colpo fatale, si ipotizza che la morte sia sopraggiunta in un momento successivo all’aggressione, a causa del freddo e dell’indebolimento dovuto alle lesioni. E qui il secondo problema, nella prima indagine balistica, sui resti della salma vengono rintracciati ben undici DNA, ma quello che sembrerà portare ad una pista è di Massimo Bossetti, rinvenuto sopra agli slip della vittima. Gli altri non verranno mai calcolati.
Inoltre pare che gli svariati test scientifici effettuati su quelle provette, siano stati fatti con un kit scaduto e colpo di scena, la pista che porta al muratore 44enne è lunga e vi si arriva tramite una ricerca del ramo familiare su “ignoto 1”. Esce il nome di Giuseppe Guerinoni, autista di autobus di Gorno deceduto nel 1999. Dalle analisi scientifiche sembrerebbe essere il padre biologico del presunto assassino, e tramite l’individuazione dell’allelle 26, si arriva a Ester Arzuffi, la donna il cui DNA nucleare corrisponde alla metà materna del profilo rinvenuto.
La donna infatti ha tre figli, Massimo, Laura (gemelli) e Fabio, figli di Giovanni Bossetti e non di Guerinoni. Ma le indagini portano a Massino, cui tramite un finto controllo stradale e l’analisi etilometrica, pare al 99% rispecchiare il profilo di ignoto 1. Ma in questo caso la difesa contesta ancora oggi, la mancanza del DNA mitocondriale del presunto assassino, nella traccia genetica rinvenuta sul corpo della vittima. Quindi la prova rivelata non è 100% sicura e non contestabile.
Le provette distrutte
Negli anni il suo avvocato, chiede insieme al suo assistito, di rifare la prova del DNA, fin da subito non concessa dalla corte di giustizia perché non rilevante. Nel 2022 finalmente arriva la possibilità per la difesa dopo varie lotte, di rianalizzare la prova. Ma la Pm Letizia Ruggeri (colei che segue le indagini sul caso Yara) decide di far spostare le 54 provette contenenti traccia biologica mista della vittima e di Bossetti dal frigorifero dell’Ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo.
Il trasferimento, dura 12 giorni con riscaldamento dei campioni che erano tenuti a -80 °C. Questo porta all’alterazione di questi ultimi, distruggendoli, e rendendo impossibile ogni tentativo di ulteriori analisi. La pm viene indagata dal GIP di Venezia per frode processuale o depistaggio, entrando nell’ elenco degli indagati.
La pista Mohammed Fikri: un buco nell’acqua
All’inizio delle indagini, quando ancora il corpo di Yara non era stato ritrovato, e l’ipotesi di un rapimento era la pista più sicura (sopratutto per i genitori della vittima) viene fuori il nome di Mohammed Fikri, un ventiduenne operaio marocchino di un cantiere edile di Mapello dove i cani molecolari sembrano aver rilevato l’ultima traccia della vittima. Era il lontano dicembre 2010, quando una nave diretta a Tangeri viene di colpo bloccata. Dentro c’era il sospettato, rintracciato tramite un’intercettazione telefonica in cui in arabo dice:
Che Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io
In realtà poi, si scoprirà che la traduzione era sbagliata e che il giovane stava decidendo di tornare al suo paese già da qualche mese. Verrà poi risarcito in seguito di una somma totale di 9.000 euro.
L’arresto di Bossetti: il mostro viene messo alla gogna
Tramite il DNA nucleare, rilevato sul lembo tagliato degli slip di Yara e sui leggings, (ritenuto dall’accusa l’unico riconducibile all’assassino) non c’è dubbio è lui, Massimo Bossetti. Il 16 giugno 2014 viene prelevato dal cantiere dove lavorava e arrestato. Ad annunciarlo è l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, fatto che suscita reazioni di disapprovazione da parte della Procura di Bergamo.
ll 1º luglio 2016 la Corte d’assise di Bergamo condanna Massimo Giuseppe Bossetti all’ergastolo per omicidio e lo assolve dall’accusa di calunnia. Il movente è rimasto ignoto, seppur si pensi ad una violenza sessuale, ma non è certo se Yara sia salita o meno sul furgoncino del sospettato. E sopratutto se la giovane, sia uscita dalla palestra o meno. Intanto il telefonino di Yara non è mai stato ritrovato e neanche l’arma del delitto.
Delitto Gambirasio: il testimone fantasma
Ma facciamo un passo indietro, torniamo a quella notte. Spunta una testimonianza, qualcuno ha visto qualcosa. Enrico Tironi, un giovane che quella sera si trovava lì nei pressi della palestra. Racconta di aver visto una c3 rossa con tanto di dettagli di ammacccature, e due tizi, identificati, ma mai rinvenuti. Inoltre dall’identikit si risale ai due, con precedenti penali per omicidio e violenza sessuale. Eppure di loro nessuna traccia, la loro presenza in tardo pomeriggio davanti alla palestra non fu ritenuta importante. Pero la macchina venne individuata e confermata dalle telecamere della zona. E poi la scomparsa del testimone, di punto in bianco espatriato all’estero, sparendo dall’inchiesta e dall‘Italia stessa.
Massimo Bossetti: il colpevole perfetto
All’inizio non ci sono dubbi, Bossetti è colpevole. La stampa che fin dai primi risvolti domina e manipola le informazione del caso, è sicura. Al 99% il muratore è il mostro che tutti stavano cercando. Dalla foto sempre presente nei tg, nei programmi televisivi, lui sul divano, uno sguardo minaccioso e i suoi animali. Questo è l’assassino di Yara. E poi il video quel furgoncino bianco che si aggira furtivamente e ossessivamente intorno a quella palestra. Video che dopo anni viene smentito dai carabiniere, un materiale creato dagli stessi per darlo in pasto all’opinione pubblica.
Il profilo del colpevole perfetto è creato, a lasciare alcun dubbio è il materiale rinvenuto nel computer del muratore, ricerche “pedopornografiche” cosi scrivono gli inquirenti, un’altra informazione falsa poiché, sul pc c’erano delle ricerche a luci rossi, ma nessuna traccia di pedofilia.
Il caso Yara: una questione di Mafia?
Nel 2013, spunta inaspettatamente in questo caso, l’ipotesi di un rapimento soggetto a vendetta. È lo scrittore e giornalista Roberto Saviano, nel suo libro ZeroZeroZero, in cui ritiene possibili alcuni legami tra l’omicidio di Yara, i cantieri edili del bergamasco, la criminalità organizzata ed il traffico di cocaina, affermando che il padre di Yara, il geometra Fulvio Gambirasio, nel 2011 lavorava per la Lopav, un’impresa edile di Ponte San Pietro che all’epoca era amministrata da Patrizio Locatelli, figlio di Pasquale Claudio Locatelli, imprenditore considerato coinvolto nel narcotraffico.
Secondo Saviano, il padre di Yara era stato testimone in un processo contro la famiglia Locatelli e l’omicidio della figlia sarebbe stato una ritorsione malavitosa. Questa circostanza fu in seguito smentita, in quanto Gambirasio, interrogato dal pubblico ministero, dichiarò di non aver mai testimoniato contro Locatelli; per questo motivo lo scrittore venne accusato di diffamazione nei confronti di Gambirasio e Locatelli, accusa poi archiviata.
Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, la denuncia al sistema giuridico
Tutto questo è riportato nella nuova serie diretta da Gianluca Neri. Un documentario accurato, che riesce in cinque puntate a raccogliere testimonianze, fatti inediti e per la prima a volta a dar voce a quel mostro che abbiamo visto solo da quella foto e da il video. Dalle parole in carcere dello stesso Bossetti, che si racconta, alla lucida dichiarazione della moglie restata fin da sempre al suo fianco, Marita Comi.
Il lavoro portato avanti da Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, è coraggioso. Non affronta il quesito, scatenato sui social, ovvero, se Bossetti sia innocente o meno. Ma parla di quanto dei casi cosi mediatici, portino a scatenare una reazione a catena, dalle investigazioni pressate dalla massa mediatica alle conseguenti fratture burocratiche e scientifiche.
Gli errori che sono stati mostrati nella serie, e poco citati dai media, dimostrano come lo stesso apparato giuridico sia debole e manipolato. Non si possono distruggere 54 campioni, di un delitto ancora aperto, che sotto alcuni aspetti fa buchi da alcune parti, e passare inosservato come se non fosse successo niente. E i kit scaduti, i materiali falsificati per creare il profilo del mostro, e i vari depistaggi.
L’entità giuridica, dovrebbe porre le basi per una giustizia equa, garantendo accusa e difesa ma soprattutto inchiodare e condannare un sospettato al di là di ogni ragionevole dubbio. La serie contesta, la presenza di tanti dubbi in questo caso. Denunciando il sistema giuridico, che in molti casi mediatici ha lasciato a desiderare. Dal caso di Elisa Claps (disponibile ora su Netflix), la sedicenne di Potenza, sparita nel 1993 e ritrovata proprio nel 2010, dopo diciassette anni, di bugie, di malfuzionamenti nell’apparato investigativo, la famiglia Claps ha ricevuto giustizia.
Elisa era proprio sopra ai lori occhi, i resti giacevano nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza. In questo caso, l’assassino era stato sempre davanti a tutti, l’ultimo ad aver visto la vittima. Ma la giustizia ha agito solo dopo l’assassinio di altre vittime.
E poi ancora l‘omicidio Scazzi, il caso di Meredith Kercher e la strage di Erba. Casi che hanno sconvolto l’Italia e che ancora si portano dietro tutti gli errori giudiziari e investigativi. Quello di Yara, scosse il mondo, la modalità dell’uccisione e l’innocenza della giovane, appena tredicenne, il sorriso, la spensieretazza, e il sogno di diventare ginnasta.
Da meme alla teoria complottista
Un caso che sul web aveva scatenato il meme: “bossetti innocente” tra ilarità nera e qualche certezza. Ad oggi diventa una teoria complottista, tanto da credere nella possibile innocenza di Bossetti e quindi nell’ipotesi, come sostiene lo stesso condannato, di essere stato incastrato.
La serie chiama a testimoniare gli esperti, ma anche i giornalisti, ognuno con una propria idea ricostruiscono dall’inizio il caso Yara. Rimasti nel silenzio sono i genitori della vittima, mai presenti in aula alle numerose sentenze del colpevole, e la pm, anche lei svanita nel nulla.
Un’opera che parla chiaro, e non esclude la colpevolezza dell’imputato, ma gli dà voce. Scritto da Carlo Gabardini, Gianluca Neri ed Elena Grillone e prodotto da Massimo Rocchi, Gianluca Neri e Marco Tosi, ripercorre in modo cruciale l’omicidio di Yara Gambirasio, aggiungendo dettagli che non tutti sapevamo. Denunciando con coraggio un sistema ancora debole, influenzato dalla mediaticità degli eventi. L’ unica domanda che rimane è, senza l’opinione pubblica, la stampa, la pressione politica, questo caso avrebbe avuto un finale diverso? Si sarebbero analizzate tutte le piste?
Ancora oggi, il caso fa buchi nell’acqua e l’uomo che sta scontando l’ergastolo forse non è colpevole ogni ragionevole dubbio.