Te l’avevo detto; Regia: Ginevra Elkann; Soggetto e Sceneggiatura: Chiara Barzini, Ilaria Bernardini, Ginevra Elkann; Fotografia: Vladan Radovic; Montaggio: Desideria Rayner; Musiche: Riccardo Sinigallia; Scenografia: Roberto De Angelis; Costumi: Andrea Cavalletto; Suono: Vincenzo Urselli Aits; Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Danny Huston, Greta Scacchi, Riccardo Scamarcio, Andrea Rossi, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Marisa Borini e con Sofia Panizzi; Distribuzione: Fandango; Produzione: The Apartment Pictures con Rai Cinema; Durata: 100 minuti.
Te l’avevo detto, la trama
È un fine settimana di gennaio a Roma, quando un’anomala ondata di caldo si impossessa della città. Nell’arco di due giorni i nostri protagonisti vengono messi con le spalle al muro, costretti ad affrontare tutto quello che hanno abilmente evitato nelle loro vite, abituati a usare il sesso, il cibo, le droghe e persino l’ amore come via di uscita, adesso non possono più scappare, devono attraversare il caldo e farsi trasformare da esso, ognuno con il suo ritmo, ognuno con la sua voce.
Presentato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma nella sezione non competitiva Grand Public, Ginevra Elkann approda nel terreno narrativo della black comedy col suo secondo lungometraggio, Te l’avevo detto, attraverso un ritratto corale di un’umanità in preda alle proprie ansie, sull’orlo dell’Apocalisse (personale e globale).
Lo spettatore fa la conoscenza di Pupa (Valeria Golino), ex pornodiva ormai in declino che tenta, a colpi di botulino e video sui social, di restare nella mente della gente. Poi, Gianna (Valeria Bruni Tedeschi), donna nervosa e imprevedibile, con una vera ossessione per la suddetta diva. Di lei prova a occuparsi la figlia Mila (Sofia Panizzi), che sebbene dedita all’amorevole accudimento di una anziana signora benestante (Marisa Borini), non riesce a ottenere gli stessi esiti con la troppo instabile madre.
Soffre a tal punto la relazione con la stessa da sfociare in incontrollabile bulimia. Altra figura è quella di Bill (Danny Huston), prete italoamericano con trascorsi di tossicodipendenza. Lo vediamo interagire con la sorella Frances (Greta Scacchi), venuta dal Connecticut con l’urna cineraria della defunta madre. Infine Caterina (Alba Rohrwacher), alcolista: a causa di ciò, il marito (Riccardo Scamarcio) decide di allontanarla da casa e dal figlio Max, di cui vorrebbe prendersi cura.
Tre spaccati assai diversi, ma accomunati tutti dalle complicatezze di relazioni madre-figlio non sempre paradisiache.
Te l’avevo detto si propone come un dramma in cui la borghesia viene messa sotto la lente d’ingrandimento. Il focus però non è tanto rivolto ai vizi di una classe sociale, quanto ai complicati legami umani. L’elemento drammatico è dato dalle emozioni dei protagonisti e dalla fitta rete di relazioni che scaturiscono da esse. Nulla di ciò che viene rappresentato deve far ridere, eppure, in certi momenti, lasciarsi scappare un sorriso pare inevitabile.
Peculiare la fotografia, diretta da Vladan Radovic: riesce a rendere percepibile la calura, te la senti quasi su pelle, che in un inevitabile crescendo sarà sempre più presente nei 100 minuti di pellicola. Le scene sono polverose, come se tutto fosse avvolto dalla nebbia, dove si riesce a vedere poco e niente; i cieli giallo ocra, quasi sgraziati, apocalittici. Giochi di luce che accentuano il senso di irrespirabilità, di mancanza d’aria.
Come si può capire anche dallo stesso titolo, Te l’avevo detto va a toccare quella parte di noi che spesso vorremmo nascondere, facendo riferimento alla tendenza umana a sentenziare sulla vita degli altri, ma anche a quella forma di durezza verso sé stessi che impedisce alle persone di perdonarsi. A nessuno piace indagare la propria vergogna, ma, talvolta, farlo sembra essere l’unica alternativa. Viceversa, a tutti interessa osservare gli sbagli altrui, anche se, di solito, ciò non porta a nulla di buono. Il risultato è un film che, pur mostrando allo spettatore alcune realtà scomode, mantiene un tono leggero e speranzoso.
Un dramma contemporaneo fuori dagli schemi in cui vengono affrontati i disordini della persona. Un’opera al cui fulcro giace l’incomunicabilità nelle relazioni con sé stessi e con l’altro, il tutto condito da una crescente oppressione fisica e mentale portata da un caldo anomalo, inatteso. Una regista, Ginevra Elkann, da scoprire. Un film da vedere e metabolizzare. Perché, che sia rivolta ad un futuro migliore o più semplicemente al continuo cambiamento, la speranza non è mai troppa.