Superstore è una sitcom che ha fatto il suo debutto in Italia nel 2016: è stata mandata in onda per un periodo anche su Italia 1, per poi entrare a far parte del catalogo di Prime Video ma da una settimana si è spostata su Netflix. La serie si compone in totale di 6 stagioni (al momento però Netflix si ferma alla quinta); la sesta è di soli 15 episodi e per il momento andata in onda a maggio di quest’anno su Premium Stories: il totale è di 113 episodi della durata di circa 20 / 25 minuti ciascuno.
Come molte altre produzioni, Superstore ha subito tagli e ritardi dovuti all’impossibilità di girare per via della pandemia (tematica a cui alcuni episodi dell’ultima stagione sono in effetti dedicati). Trattandosi comunque di un gran numero di episodi in totale, con questo articolo voglio darti qualche informazione in più per aiutarti a capire se questa serie fa per te.
Di cosa parla Superstore
La storia si svolge all’interno del Cloud 9, un supermercato di quelli giganteschi tipici americani che vende qualsiasi cosa: dagli omogeneizzati, al mobilio, alle armi. Amy Sosa (America Ferrera) è il supervisore dei dipendenti, Dina Fox (Lauren Ash) è la vicedirettrice e responsabile della sicurezza, e Glenn Sturgis (Mark McKinney) è il direttore del negozio. Nel pilot incontriamo Jonah Simms (Ben Feldman) che è lì per un colloquio di lavoro, e una volta assunto farà conoscenza con tutti gli altri esilaranti personaggi che animano il Superstore.
La serie inizia come una qualunque sitcom leggera, e si concentra prevalentemente sulle relazioni tra gli impiegati. Col passare delle stagioni però, Superstore inizia a trattare sempre più da vicino tematiche di estrema importanza e attualità: le politiche sull’immigrazione, il ruolo del sindacato per i lavoratori di una grande multinazionale, le possibilità di carriera per le donne in questo tipo di realtà lavorative, tutto con la spensieratezza della sitcom ma con un occhio alla concretezza della realtà raccontata. Ecco di seguito il trailer (purtroppo disponibile solo in inglese).
Quali sono i punti di forza di Superstore
Il primo punto di forza su tutti è l’ambientazione; dopo anni di ospedali, distretti di polizia e tribunali, finalmente anche una serie che parla di un negozio come altri mille: è importante che anche altri luoghi di lavoro più vicini alla realtà della maggioranza delle persone siano adeguatamente rappresentati dai media (e possibilmente, come in questo caso, da persone credibili).
Il vero motivo per cui guardare questa serie, però, sono le tematiche trattate: dopo un iniziale concentrazione sulle relazioni interpersonali, con il proseguire delle stagioni cominciamo a vedere i personaggi alle prese con questioni sindacali e lotte per i propri diritti di base, così come con i problemi con l’immigrazione di uno dei dipendenti. E’ vero che il ritmo della serie rallenta un po’, ma anche questo è un aspetto molto importante al giorno d’oggi.
Un altro pro è decisamente il cast, a partire dai due protagonisti principali: America Ferrera è anche una delle produttrici dello show ed ha diretto alcuni episodi, così come Ben Feldman (in un ruolo molto diverso da quello in cui lo abbiamo visto in Mad Men, ma che ti farà decisamente innamorare di lui). Tutti gli attori coinvolti hanno un forte background comico, ottimi tempi e una bella espressività: McKinney ha fatto uno splendido lavoro d’interpretazione dando una voce unica al suo Glenn, resa molto bene anche nel suo doppiaggio italiano da Gianni Bersanetti.
Dina (Lauren Ash) e Garrett (Colton Dunn) sono due personaggi equivalenti, sebbene Garrett sia più incline alla cattiveria mentre Dina sia genuinamente caotica: trovo sia interessante proporre queste due versioni di un personaggio simile interpretate al maschile ed al femminile. Dina nello specifico è un personaggio completo e sfaccettato, e per quanto venga da chiedersi se sia realistico è fuori discussione che sia quello con la backstory più curata e interessante (più ancora di quella dei protagonisti).
E’ bella l’amicizia di Mateo (Nico Santos) e Cheyenne (Nichole Sakura), e a questo proposito fa sorridere pensare che questi due attori abbiano provato a candidarsi per lavorare in un vero super store per perfezionare i propri personaggi ma nessuno dei due sia stato assunto. Si vede che in generale il cast si è divertito e che molto è stato lasciato alla loro capacità di improvvisazione (a questo link trovi dei blooper dalla prima stagione).
Un altro pro sono le cosiddette cold open (in uno stile simile a quelle di Brooklyn 99, anche se non così potenti, onestamente): le puntate si aprono prima della sigla con scene in medias res, non sempre relative alla storia che verrà trattata nell’episodio, ma dirette e immediate; allo stesso modo sono spesso esilaranti le scene assurde e veloci che ritraggono i clienti nello store lavare i propri abiti nelle lavatrici in esposizione, usare i prodotti per poi rimetterli a posto, e fare altre cose decisamente poco adeguate al luogo come puoi vedere in questo mashup.
In conclusione: Superstore è una serie leggera ma allo stesso tempo attuale, che parla di una realtà comune e vicina a molti spettatori; ideale da guardare senza impegno.
Ormai le serie tv sono diventate una lagna pazzesca.. Mi riferisco al fatto che tutte(non ne trovo una diversa) dicono sempre che vogliono rifuggire dal ruolo dei generi… rompere certi stereotipi.. etc..
Scusate ma se io guardo una serie tv, mi interessa la storia e che il creatore sia libero. Se tutte quelle che vedo e ne ho viste tante.. hanno questo obiettivo, forse c’è un condizionamento culturale al contrario.. altrettanto sbagliato di quello che creava appunto alcuni vecchi stereotipi.
Il messaggio che vuole dare giusto o sbagliato che sia eh.. non lo critico.. ma critico la monotonia del fatto che il politically correct rende tutto piatto e noioso.. tutto uguale..tutte le città uguali..senza monumenti(dove non li hanno distrutti perchè alcuni fanno pure questo) non capisci dove sono ambientati..(esagero per rendere l’idea). Qui hanno veramente esagerato nella 6a stagione di Superstore.. al punto che ho immaginato in anticipo quello che sarebbe successo(questo tipo di politically correct è talmente prevedibile e ripetitivo che non è stato difficile), ho guardato le anteprime delle puntate successive, scoperto che sarebbe successo tutto quello che avevo immaginato e così ho staccato la serie.. game over.. non la guarderò mai più. Interrotta alla 3a puntata. Mi bastano le ore e ore di politica su queste cose.. una storia deve essere libera e imprevedibile. Praticamente con la scusa di eliminare vecchi stereotipi ne hanno creati di nuovi. Il modo ad esempio in cui viene costantemente umiliato il personaggio di Jonah(che fra l’altro ha una istruzione, è intelligente e meriterebbe molto più successo, invece lo fanno umiliare da personaggi squallidi e senza senso solo perchè ritenuti, da loro eh.. (etnicamente diversi)) oppure lo stesso direttore.. solo perchè bianco etero e cristiano lo devono umiliare e descrivertelo come un bambino di 5 anni ridicolo e che si fa pestare i piedi da tutti.. eh no dai è troppo… Addio alla serie tv. Che si possa trovare chiama femminismo estremo, male bashing fortissimo, propaganda di una certa sinistra su immigrazione, sulle regole per la clandestinità o altri argomenti.. ma è politica o spettacolo? è politica.. mi bastano i talk show che vedo alla tv per quello. Quando guardo una serie voglio staccare.. se possibile.. o almeno che non siano tutte. Piuttosto guardo quelle di 15 anni fa.. per quanti stereotipi potessero avere(al contrario alcuni ugualmente brutti) trovo che i registi fossero per assurdo un pochino più liberi e spontanei. Qui abbiamo involucri diversi con la stessa manfrina(giusta o sbagliata non sono qui per parlare di politica, ognuno la pensa come vuole) ma sempre uguale..In casi singoli potrebbe anche essere divertente se fosse unico e non ripetitivo, in questo modo ti senti solo preso in giro. è il mio personale parere.