Simon calls (Simon chama)
Regia: Marta Sousa Ribeiro; soggetto e sceneggiatura: Marta Sousa Ribeiro; fotografia: Manuel Pinho Braga, Guilherme Daniel, Víctor Ferreira; scenografia: Alexandra Côrte-Real de Almeida, Raquel Santos, Cuca; musiche: Raimundo Carvalho; suono: Bernardo Theriaga, Nuno Henriques; montaggio: Tiago Simões, Marta Sousa Ribeiro; interpreti: Simon Langlois, Rita Martins, Mariana Achega, Bernardo Chatillon, Miguel Orrico; produzione: Marta Sousa Ribeiro, Tiago Simões, Joana Peralta per Videolotion; origine: Portogallo – 2020; durata: 84′.
Trama
È l’ultima settimana di scuola ma Simon non sta studiando per gli esami. I suoi genitori hanno divorziato e sembrano aspettare un cambiamento che però non arriva mai. Simon è stanco di aspettare. Potrebbe avere un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti? Sarebbe possibile far esplodere gli oggetti da lontano? E se potessimo tornare indietro nel tempo? O solo nei film è possibile trovare la libertà? Sono questi alcuni degli interrogativi esplorati nel film, la cui narrazione procede per metafore, incorniciando i flashback all’interno di inquadrature più strette. Più che una storia lineare sullo schermo vengono proiettati vari frammenti, appartenenti a momenti diversi, nei quali però il comune denominatore è la voglia di evadere, fuggire da un sentiero che le aspettative altrui vogliono già tracciato. Per farlo ci vuole coraggio, che è facile ostentare a parole ma è più difficile seguire con i fatti (l’amico Miguel che abbandona l’idea del viaggio proprio nel momento in cui essa potrebbe concretizzarsi).
Il commento del redattore
Il progetto di Marta Sousa Ribeiro, presentato quest’anno allo Shorts Internazional Film Festival, era inizialmente quello di girare un cortometraggio; l’elaborazione della sceneggiatura alla quale ha collaborato, non accreditato, anche il giovane protagonista Simon Langlois ha però richiesto uno sviluppo più articolato e un dispiego di mezzi superiore (dall’impiego di tre direttori della fotografia era lecito aspettarsi qualcosa in più). La decisione di girarlo in tre fasi, a due anni di distanza l’una dall’altra (2015, 2017,2019) richiama l’ambizioso Boyhood (2014) di Richard Linklater, dal quale però il film portoghese prende le distanze quanto a finalità e struttura.
All’interno di una narrazione non lineare si alternano esperienze autobiografiche dei due autori e filmati di documentari americani su ragazzi che vivono per strada: se è vero che questi ultimi godono della libertà tanto agognata da Simon, il rovescio della medaglia è che non hanno nessuno che li educhi e si prenda cura di loro.
A dispetto della scrittura che coincide con la regia si nota una certa freddezza nell’esecuzione che stride con la spontaneità che il film vorrebbe mostrare (i personaggi nella finzione mantengono il loro vero nome). L’obiettivo è probabilmente quello di sospendere il giudizio morale, evitando un tono paternalistico, mostrando invece i tormenti dell’adolescenza così come sono, ma a ciò non giovano la struttura frammentaria e alcuni momenti di dialogo tra le generazioni che spesso hanno il sapore di clichè.