Mank (id.)
Regia: David Fincher; soggetto e sceneggiatura: Jack Fincher; fotografia (B/N rapporto 2,20:1): Erik Messerschmidt; scenografia: Donald Graham Burt; costumi: Trish Summerville; colonna sonora: Trent Reznor, Atticus Ross; montaggio: Kirk Baxter; interpreti: Gary Oldman (Herman J. Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Lily Collins (Rita Alexander), Charles Dance (William Randolph Hearst), Arliss Howard (Louis B. Mayer), Tom Pelphrey (Joseph L. Mankiewicz), Sam Troughton (John Houseman), Ferdinand Kingsley (Irving G. Thalberg), Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz), Tom Burke (Orson Welles), Joseph Cross (Charles Lederer), Jamie McShane (Shelly Metcalf), Toby Leonard Moore (David O. Selznick), Leven Rambin (Eve); produzione e distribuzione: Ceán Chaffin, Eric Roth, David Fincher, Douglas Urbanski per Netflix; origine: USA – 2020; durata: 131′.
Trama
Hollywood, 1940. Finito in ospedale con una gamba rotta in seguito a un incidente d’auto Herman J. Mankewicz, ex giornalista e critico teatrale del New Yorker, ora sceneggiatore per il cinema viene contattato dal produttore John Houseman della RKO Pictures. Quest’ultimo ha appena messo sotto contratto l’enfant prodige della radio Orson Welles che vuole ‘Mank’ per scrivere una sceneggiatura. Per farlo lavorare e tenerlo lontano, per quanto possibile, dalla bottiglia il produttore lo fa trasportare in una villetta isolata, controllato a vista da un’infermiera/fisioterapista e da un’assistente, Rita Alexander (Collins) incaricata di battere a macchina le pagine del copione che Mank scrive a mano. A conferire brio ad una storia statica c’è una serie di flashback che raccontano il suo rapporto con il mondo del cinema, la sua amicizia con l’influente magnate della stampa William Randolph Hearst (Charles Dance) e la sua amante Marion Davies (Amanda Seyfried). Commediografo, apprezzato membro della Algonquin Round Table, Mank aveva lasciato New York per Los Angeles a metà degli anni ’20 e il suo spirito brillante e irriverente lo aveva imposto come uno degli sceneggiatori più ricercati, a volte anche produttore per i fratelli Marx. Lo vediamo ubriacarsi, scommettere, scusarsi con la moglie, la “povera” Sarah (Middleton) e conquistare con il suo spirito e il suo cinismo autodistruttivo Hearst e il rispetto professionale di Louis B. Mayer e il suo delfino Irving G.Thalberg (Kingsley), rispettivamente capo della Mgm (Howard) e giovane produttore rampante. A completare il quadro della personalità del protagonista, viene narrata la simpatia di Mank per le idee progressiste di Upton Sinclair, candidato governatore della California nel 1934 contro il conservatore Frank Merriam. Per affossare la candidatura di Sinclair, considerato un pericoloso comunista, l’establishment di cui Hearst è sostenitore spinge Mayer a produrre falsi cinegiornali per screditarlo. La sera delle elezioni Merriam vince e vediamo il conflitto interiore dello scrittore, acuito dalla morte per suicidio dell’amico che quei cinegiornali li aveva diretti, esplodere in un furioso e memorabile confronto con Hearst nella sala da pranzo del suo castello: viene licenziato dalla MGM e, tra vicissitudini ed eccessi, la scena torna al presente. La prima stesura del copione inizia a circolare e, nonostante i tentativi di dissuasione da parte di tutti coloro che gli sono vicini e persino di Marion Davies (Seyfried), a lui legata da un forte sentimento consegna lo scritto a Welles, ma ad un patto: di poterlo firmare, perchè è il migliore che egli abbia mai concepito, a partire dalla propia esperienza di vita. Il film di Welles, intitolato Quarto Potere, porta a casa un solo Oscar su nove candidature: proprio quello alla sceneggiatura, firmata a quattro mani da Mankiewicz e Welles. Lo scrittore morirà alcolizzato pochi anni dopo, all’età di 58 anni.
Genesi di Quarto Potere
Sulla paternità della sceneggiatura si è sempre dibattuto. Negli anni gli estimatori di Welles hanno sostenuto la preponderanza di quest’ultimo,la cui debordante personalità ha spesso oscurato il contributo dei suoi collaboratori. La domanda che sorge è: a chi appartiene un film? A chi lo scrive (nel caso di Mankiewicz lo vive, in un certo senso) o a colui che trasforma le parole in immagini? Al quesito aveva già cercato di rispondere l’autorevole critica del New Yorker Pauline Kael col suo saggio del 1971 intitolato Raising Kane – The Citizen Kane Book (Citizen Kane è il titolo originale di Quarto Potere). Nel libro la tesi sostenuta dall’autrice attribuisce gran parte del merito della scrittura a Herman J. Mankiewicz, il cui trattamento dal titolo Americano si sarebbe trasformato nella sceneggiatura del film. Fincher sembra sposare questa tesi, riservando al grande regista uno spazio ristretto nel film e rappresentando la scelta della doppia firma come pretesa da Mankiewicz, quando l’ipotesi più probabile è che questa sia stata imposta dallo Screen Writers Guild, il potente sindacato degli autori per il cinema. Sul punto è illuminante l’intervista rilasciata da Fincher al settimanale francese ‘Première’:
“Con il tempo si è presa coscienza che Welles era innanzitutto un showman e un giocoliere, con un talento smisurato che ha avuto la sua occasione ma… Insomma, penso che la tragedia di Orson Welles risieda nel mix tra un talento monumentale e un’ottusa immaturità. Certo, c’è del genio in ‘Quarto potere’, chi può contestarlo? Ma quando Welles afferma che basta un pomeriggio per sapere tutto sulla fotografia nel cinema, beh… diciamo che è stato molto fortunato ad avere Gregg Toland (direttore della fotografia ndr.), un vero e proprio genio. Dico questo senza voler mancare di rispetto a Welles, so cosa gli devo, così come so cosa devo a Hitchcock, Spielberg, Ridley Scott, George Lucas, Hal Ashby. Ma a 25 anni non sai quello che non sai. Punto. Né Welles, né altri. Ciò non toglie nulla alla sua influenza su un’intera generazione di cineasti, ma non si deve sottovalutare l’impatto disastroso dei suoi eccessi di delirante superbia“.
A dirla tutta la sua provocazione rischia di cadere nel vuoto o almeno di giungere a destinazione fuori tempo massimo: non è un caso che Mank sia rimasto nel cassetto per vent’anni. Al di là delle polemiche la sintesi perfetta del film è la battuta pronunciata dallo stesso protagonista: “Non è possibile condensare l’intera vita di un uomo in due ore. L’unica possibilità è dare l’impressione di averlo fatto.” E David Fincher, grazie anche al copione del padre, ha portato a termine il compito in modo esemplare. Ogni flashback è una pennellata da impressionista a un ritratto, parziale ma suggestivo, di una personalità contraddittoria come quella di Herman J.Mankiewicz.
Interrogarsi sul contributo di quest’ultimo al Cinema non è l’obiettivo, anche se il cinefilo attento coglierà gli accenni lasciati qua e là nel film. Come quello a La guerra lampo dei fratelli Marx cui egli prestò il proprio ingegno nel duplice ruolo di produttore e scrittore. Una citazione a parte merita la scenografia: la ricostruzione degli studi MGM e Paramount è accuratissima e le scene con protagonista William Randolph Hearst sono state riprese nel vero Hearst Castle in California, vicino a San Simeon. I palati più fini apprezzeranno poi il pastoso ma nitido bianco e nero della fotografia e i raffinati costumi d’epoca di un’opera notevole anche guardata sul piccolo schermo. La risposta migliore a quei produttori di Hollywood interessati oramai solo a produrre blockbuster per incassare denaro, senza badare troppo alla qualità (trovi qui l’articolo sulle sue esternazioni in merito). Un altro grande colpo per Netflix, che dopo il successo ottenuto nel 2019 con Roma di Cuaròn candida un concorrente credibile nella corsa agli Oscar 2021.
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