Ci ha l’ennesimo scherzo l’uomo, l’attore, il mattatore Proietti, lasciandoci nello stesso giorno che lo ha visto nascere 80 anni fa e sul cui significato (il 2 novembre, giorni dedicato ai defunti), ha sempre ironizzato.
La nostra rubrica non poteva naturalmente restare indifferente alla scomparsa di Gigi Proietti, scegliendo di omaggiarne la bravura, la comicità e la presenza scenica con un film icona non solo di una generazione, ma dell’intera Nazione targata anni ‘70/’80.
Parliamo di Febbre da cavallo film che inizialmente sembrò quasi essere una semplice parentesi nella carriera dei suoi vari interpreti e soprattutto di Proietti, ma che negli anni, invece, ne ha consacrato la bravura.
L’idea
Nel 1971 Massimo Patrizi elaborò il progetto di Febbre da cavallo, creando inizialmente un film drammatico che denunciasse la dipendenza da gioco. Il soggetto fu poi presentato a Roberto Infascelli a cui piacque molto, tanto da scegliere di portarlo sul grande schermo dopo la conclusione di La polizia ringrazia.
Sempre in quell’anno, Infascelli chiese a Steno di prendere le redini di Febbre da cavallo, ma a quest’ultimo il progetto non piaceva e declinò l’offerta più volte, costringendo lo stesso Patrizi a mettere da parte il soggetto.
Solo nel 1974 Infascelli riprese in mano il progetto, modificandone però il genere e rendendolo un film comico, più in linea con la commedia all’italiana a cui il pubblico nostrano era abituato, soprattutto in quegli anni, quando la commedia all’italiana era un genere non solo apprezzato, ma anche ricercato da attori e registi.
A Steno questo nuovo progetto piacque molto, tanto da dedicarsi completamente ad esso e alla sua regia.
Il caro vecchio Steno tuttavia, non era un esperto di ippica, pertanto chiese a suo figlio Enrico di aiutarlo con la sceneggiatura del film, dal momento che aveva frequentato vari ippodromi e conosceva l’ambiente.
Prima di allora, Enrico aveva lavorato – nello stesso anno – solo a Oh, Serafina!, con Alberto Lattuada alla regia; da allora, come ben sappiamo, Enrico Vanzina non si è mai fermato un attimo, producendo e scrivendo sceneggiature per tantissimi film e lavorando con centinaia di attori italiani e non spesso in coppia con il compianto fratello Carlo.
Febbre da cavallo, è addirittura da molti considerano il suo capolavoro
“Lo amo perché l’ho scritto insieme a mio padre, che da regista ha azzeccato in pieno tutti gli attori, ha azzeccato il tono del racconto, il ritmo, l’ambientazione scenografica, i costumi, la scelta della musica, riuscendo a realizzare un piccolo capolavoro-verità sul mondo degli scommettitori”.
Febbre da cavallo occupa quindi un posto speciale tra i ricordi di Enrico Vanzina, sceneggiatore della mitica commedia anni ’70 diretta da suo padre, Steno, ma non solo per questioni affettive (“padre regista / figlio sceneggiatore”, un privilegio concesso a pochissimi nel cinema), anche per la particolare natura del film, che si presenta come una vera e propria istantanea di quella romanità goliardia e caciarona, che oggi si è un po’ perduta.
“Lo amo – il Vanzina pensiero – perché è una vera commedia di costume senza essere un film presuntuoso, bensì un prodotto semplice e onesto”.
Ma più di ogni atra cosa, Enrico ha dichiarato di amare profondamente Febbre da cavallo perché la gente lo ama, tanto da conoscerne le battute a memoria, un riconoscimento, questo, che per uno sceneggiatore rappresenta una grande soddisfazione, più di qualsiasi premio.
Sta di fatto comunque che, la storia di Febbre da cavallo è quella di un soggetto iniziale – adatto per un film di denuncia – poi completamente stravolto.
In realtà avrebbe addirittura dovuto girarlo Nanni Loy, ma finì poi nelle mani di Steno, che incaricò Enrico di revisionare la prima stesura dello script ad opera di Alfredo Giannetti.
La trama
Già il titolo la dice lunga su quale sia l’ambiente attorno al quale tutta la storia si sviluppa.
Racconta infatti le rocambolesche peripezie di tre amici col vizio delle scommesse ippiche: Bruno Fioretti (Gigi Proietti), soprannominato Mandrake, che dice di essere attore e indossatore, ma in realtà si fa mantenere dalla fidanzata Gabriella (Catherine Spaak); Armando Pellicci (Enrico Montesano) detto Er Pomata, autodefinitosi tecnico ippico, ma in realtà disoccupato cronico abile nelle truffe; Felice Roversi (Francesco De Rosa), svogliato parcheggiatore abusivo.
Il trio passa gran parte delle giornate agli ippodromi, in particolare quello di Tor di Valle, dove cerca in ogni modo di mettere insieme il denaro per le scommesse, con la speranza di fare il colpo definitivo e sistemarsi per sempre.
https://www.youtube.com/watch?v=NCEaIBqklG8
Dopo l’ennesima sconfitta ai cavalli, Gabriella, stanca che il suo fidanzato sperperi i soldi inutilmente, chiede consiglio a una veggente. A sorpresa, questa le indica tre cavalli vincenti su cui scommettere: Soldatino, King e D’Artagnan, i peggiori in circolazione.
Quando Mandrake comunica agli amici di voler puntare sui cavalli consigliati dalla fidanzata, viene convinto da Er Pomata a puntare su un cavallo favorito.
Il pronostico della cartomante si rivela tuttavia esatto e costretto a dover mentire a Gabriella, che convinta di essere diventata ricca comincia a spendere soldi all’impazzata, Bruno organizza una super-mandrakata coi suoi compari per uscire da quella situazione, truccando una corsa.
Ovviamente, il piano fallisce miseramente e i tre finiscono in tribunale, dove però troveranno un giudice altrettanto appassionato di scommesse…
Il flop diventa un cult
Febbre da cavallo ha davvero una storia particolare, è il brutto anatroccolo divenuto cigno, si perché non è sempre stato il cult anzi, tutt’altro.
Nel 1976, anno dell’uscita nelle sale cinematografiche, il film di Steno non ottenne infatti grandi riscontri al botteghino e venne stroncato dalla critica.
Solo negli anni ’90, soprattutto grazie ai ripetuti passaggi sulle reti televisive, ha ottenuto la popolarità mancata agli inizi divenendo un film di culto.
Questo è stato il destino di Febbre da cavallo, un concentrato di genuino umorismo valorizzato dagli scorci di Roma che il pubblico ha inizialmente ignorato e il cui incasso non è andato oltre i 200 milioni di lire: un risultato non disastroso ma ritenuto comunque modesto.
https://www.youtube.com/watch?v=R3aqTKN2tcM
I maggiori esperti dell’epoca lo bollarono come un semplice “filmetto sbrigativo”, affibbiandogli la nomea di pellicola “senza infamia e senza lode”, seppur a proposito della sua produzione, Nikki Gentile (che nel film interpreta Mafalda, l’indossatrice amica di Mandrake) ricorderà che
“mentre lo giravo sentivo che era un bel film, era qualcosa di particolare, di diverso […] di magico”.
In un articolo de la Repubblica del 2 novembre 1976 addirittura si legge:
“Febbre da cavallo presenta il peggiore dei difetti attribuibili a Steno: non fa ridere […], almeno per la prima ora, e poi soltanto una certa dimestichezza può indurre a un poco di simpatia per il film.”
Anche Proietti nel corso del tempo ha evidenziato come la pellicola non sia stata in grado di far breccia nel cuore degli spettatori all’epoca del suo debutto nelle sale, ma la svolta arriva oltre 15 anni dopo grazie alla televisione e Proietti ci aveva visto giusto tutte le volte che ha dichiarato
“semplicemente faceva ridere”
Finalmente quindi, negli Anni ’90 Febbre da cavallo viene venduto a varie emittenti private, in particolare quelle romane, che iniziano a mandarlo in onda regolarmente e ad ogni passaggio in tv, attira sempre più persone davanti lo schermo, rimaste colpite dallo stile del film e dalle sue improbabili situazioni in un tripudio di autentica romanità.
Ben presto la pellicola viene trasmessa anche sulle principali reti televisive nazionali, arrivando anche ad essere ripresentato alla 67° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Persino la critica rivaluta il lavoro di Steno dandogli maggiore considerazione rispetto al passato.
La popolarità a posteriori di Febbre da cavallo spinge i produttori della Warner Bros Italia a realizzare un seguito, sottotitolato La Mandrakata e diretto da Carlo Vanzina, figlio di Steno, arrivato al cinema nel 2002.
Gli unici attori del cast originale a fare ritorno sono Gigi Proietti ed Enrico Montesano, affiancati da Carlo Buccirosso, Rodolfo Laganà, Nancy Brilli e Andrea Ascolese.
A differenza del predecessore ottiene subito un grande successo, forte della popolarità raggiunta in tutta Italia dal primo film.
Febbre da cavallo ha avuto quindi una doppia rivincita, meritata e molto attesa.
I personaggi
La storia di Febbre da cavallo è quella di un soggetto iniziale – adatto per un film di denuncia – poi completamente stravolto.
L’intuizione, poi messa a punto, era quella di trasformare un film amaro in una farsa, prendendo come modello le commedie chiassose degli anni ’50 ricche di caratteristi.
E in effetti il film è proprio questo, una farsa coloratissima e vivace sul mondo delle scommesse, una commedia di costume veloce ed esuberante su una febbre del gioco che non fa distinzione di classe.
Si ride tantissimo, grazie a gag improvvisate (una su tutte, il carosello del whisky maschio) e soluzioni geniali che pescano nella tradizione della commedia dell’arte.
Il ruolo di Bruno Fioretti detto Mandrake – per via delle innate doti trasformiste – era stato pensato inizialmente per Ugo Tognazzi dal produttore Roberto Infascelli (che propose la parte anche a Vittorio Gassman, il quale però rifiutò) che era rimasto molto colpito dalla prova dell’attore nel capolavoro Amici miei.
A pensarci bene, infatti, il personaggio del conte Mascetti, uno capace di dilapidare due patrimoni (il suo e quello della moglie) sperperando tutto in fuoriserie sportive, abiti firmati e donne, sarebbe stato perfetto nell’affresco corale di Febbre da cavallo, ricco di miserabili e squattrinati perdigiorno.
Il regista Steno, però, su indicazione del collega Alberto Lattuada, preferì puntare su un giovane e semisconosciuto – almeno sul grande schermo – Luigi Proietti, così accreditato nei titoli di testa.
Infascelli dovette arrendersi anche per il ruolo di Pellicci Armando detto Er Pomata (per via della brillantina copiosa sui capelli).
Voleva infatti Carlo Verdone ma Steno impose Enrico Montesano, col quale aveva da poco finito di girare L’Italia s’è rotta e che godeva di una grande popolarità a quei tempi.
Nello script iniziale inoltre, il personaggio di Pomata aveva un ruolo minore nelle vicende raccontate e furono i Vanzina (padre e figlio) a intuire che Mandrake necessitava non di una spalla bensì di un attore di pari livello, capace di tenere botta nei duetti.
La parte di Felice Roversi, invece, era stata inizialmente affidata a Felice Andreasi. Forse a causa di alcuni tagli alla parte, l’attore rinunciò al film e la produzione contattò Francesco De Rosa.
Successivamente venne ingaggiata Catherine Spaak per la parte di Gabriella (ruolo inizialmente pensato per Edwige Fenech, che a sorpresa declinò l’offerta). Adolfo Celi era stato inizialmente considerato per il ruolo dell’avvocato De Marchis ma Steno suggerì a Infascelli di affidargli la parte del giudice (ridotta nella stesura finale), più seria e imponente, e che quindi meglio si adattava al carisma dell’attore, rispetto a quella più goliardica dell’avvocato, che finì a Mario Carotenuto, grande amico di Infascelli.
La pellicola raggruppa inoltre un nutrito gruppo di caratteristi, tra i più famosi del cinema italiano del dopoguerra: dal già citato Mario Carotenuto a Gigi Ballista (il conte Dallara), che molti ricorderanno anche in una zuffa con Nino Manfredi in Straziami ma di baci saziami, fino a Luciano Bonanni (l’infermiere, ruolo che ricoprirà pure in Un sacco bello) ed Ennio Antonelli, colui al quale il film, dopo i tre protagonisti, ha regalato forse la più grande notorietà grazie al personaggio di Otello Rinaldi, al secolo Manzotin.
https://www.youtube.com/watch?v=2YBLDnBBEMc
La pellicola presenta nel cast anche la grande caratterista Nerina Montagnani, la mitica Natalina degli spot pubblicitari del caffè Lavazza con protagonista Nino Manfredi girati tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli ’80.
Enrico Montesano e Francesco De Rosa hanno lavorato insieme anche in A me mi piace e Piedipiatti, ma l’attore, lanciato proprio da Steno con Piedone a Hong Kong, si è suicidato il 2 dicembre 2004 nel silenzio generale.
I luoghi e le scene cult…e qualche curiosità
Oltre alla forte vena comica, frutto della riuscita interpretazione degli attori, Febbre da cavallo offre anche uno spaccato di Roma mettendo in risalto alcuni dei luoghi iconici della Capitale, come Ponte Milvio, l’Isola Tiberina, piazza d’Ara Coeli, piazza Augusto Imperatore vicino la centralissima via del Corso e il lussuoso Hotel Excelsior di via Veneto e ovviamente l’Ippodromo Tor Di Valle, simbolo del film e oggi in disuso.
“Dove pensa che sia cominciato il pasticcio? A Tor di Valle, all’ippodromo!”.
Lo dice Mandrake al giudice, nel processo che lo vede imputato.
È la location chiave del film. Le prime immagini, accompagnate dall’indimenticabile (galoppante) sigla, sono state girate proprio qui, dove Er Pomata, Mandrake e Felice si ritrovano per scommettere sui cavalli.
Come dimenticare la scena in cui Er Pomata deve 300mila lire al creditore Ventresca ma, ovviamente, non può ridarglieli.
“Ce sta Spartaco er Ventresca. A occhio e croce me sembra ‘ncazzato!”.
Quando arriva sotto casa, si accorge che l’uomo lo sta aspettando con aria minacciosa e in panico, si catapulta dietro l’angolo cercando di nascondersi. L’appartamento del Pomata è a Piazza Margara 24, nel cuore del Ghetto.
Come ogni compagnia che si rispetti, anche i nostri tre giocatori incalliti hanno un punto d’incontro che fa da sfondo alle loro bravate, è il bar di Gabriella, fidanzata di Mandrake
“Ma io che leggo a fa’? So’ uncomputer equino!”.
Dove si prendono decisioni su come rimediare soldi e su quali cavalli puntarli.
Tutto ciò che presenta nella realtà un’accezione negativa viene con Febbre da cavallo rovesciato e rivestito di tragicomico.
Ci sono le truffe (specie ai danni del macellaio burino Manzotin), i tentativi di combine (quello finale, al Gran premio degli Assi), gli allibratori e le dannazioni di un manipolo di disperati che vivono alla giornata, sperando in un cavallo buono su cui puntare, documentandosi a dovere su riviste di settore.
Un film per certi versi unico, forse l’ultima grande commedia popolare italiana prima dell’avvento della stagione commerciale di derivazione televisiva che caratterizzò il decennio successivo.
La pellicola offre svariati aneddoti riguardanti il periodo delle riprese, la scelta del cast e il sequel (La mandrakata), uno dei pochi casi italiani di seguiti realizzati a distanza di molti anni risultati comunque godibili, grazie anche alla presenza di un attore sopra la media qual è Proietti e anche, probabilmente, a scene improvvisate come lo spot del whisky e la scena della morte della nonna di Armando
Più o meno la stessa cosa avvenne anche quando Mario Carotenuto (l’avvocato De Marchis), durante le riprese della scena del processo, si lanciò di sedere sulla cattedra del giudice e la distrusse, lasciando Adolfo Celi esterrefatto.
Febbre da cavallo è anche un film che ha giocato molto sull’economia, soprattutto per quanto riguarda le comparse; se prestate attenzione, infatti, potreste notare dei volti ricorrenti all’interno del film.
Nella scena in cui i protagonisti vanno all’ippodromo di Agnano, ad esempio, incontrano una persona napoletana e lo stesso volto verrà ripreso – poche scene più tardi – in un’agenzia ippica di Roma.
https://www.youtube.com/watch?v=QVUt_jLh6UE
Ma non è finita qui: il facchino dell’hotel in cui il personaggio di Gigi Proietti alloggia durante una delle scene, è qualcuno che lo spettatore aveva già conosciuto. Lo stesso facchino, infatti, aveva interpretato il cameriere dove erano andati a mangiare l’avvocato De Marchis, Mandrake, Pomata e Felice solo poche scene prima.
https://www.youtube.com/watch?v=9O2dxq3nfDw
Anche se non lo si vede, persino il regista Steno è presente all’interno di Febbre da cavallo.
Avete presente la voce dello spot durante la scena in cui Gigi Proietti va in giro vestito da vigile? Ecco, quel regista irascibile che insulta l’attore è proprio Steno.
Il film è pieno zeppo di battute che si rincorrono nella mente e ne ricordi di ognuno di noi
“A Poma’, c’hai ‘na faccia…!” “Sì, se ce n’avevo due già stavo all’università… sotto spirito!”.
“A manzotin! Tu poi solo scommette che tu moglie te mette le corna che vinci de sicuro.”
Oggi il giudizio pressoché unanime su Febbre da cavallo è quello di un film di culto che ride di un mondo particolarissimo e pittoresco (quello delle corse ippiche) fatto di manie, rituali ed espedienti, popolato (per la maggior parte) da incalliti scommettitori e vitelloni col vizio del gioco.
Una storia che oggi avrebbe tanto da insegnare ad orde di giovani adolescenti alle prese con vizi e manie altrettanto nocive, ma esasperate e portate a livelli estremi.
Febbre da cavallo rappresenta un mondo vero ma ormai lontano, inarrivabile e inimitabile, ma proprio per questo unico e magico.