Al suo cardiologo:
“Professò, vi prego lasciatemi morire . Fatelo per la stima che vi porto”
Al cugino suo segretario
“Eduà, Eduà mi raccomando. Quella promessa: portami a Napoli “
Alla compagna Franca Faldini
” T’aggio voluto bene Franca, proprio assaie”
Il 15 aprile 1967, ci lasciava Totò , e veniva salutato due giorni dopo, proprio a Napoli, dinanzi ad una folla di oltre centomila persone.
Una bombetta ed un garofano rosso, per omaggiare il più grande, l’inimitabile, l’immenso Principe della risata.
Vogliamo rendergli omaggio, ricordando uno dei suoi film più famosi: Totòtruffa ’62
Cosa non si farebbe per i figli.
Il film di cui vi parlerò oggi, commedia in bianco e nero del 1961 , ci offre uno spaccato davvero singolare di questo detto popolare , sì perché quando un padre, illustre diplomatico sempre in giro per il mondo, è in realtà uno squattrinato trasformista che vive di espedienti , il divertimento è assicurato.
Se il tutto può essere tuttavia “giustificato” dal voler a tutti costi garantire alla propria figlia, un futuro dignitoso , facendola studiare in un prestigioso collegio privato, anche i sentimenti sono salvi, ed il risultato è senz’altro un mix esplosivo .
Totòtruffa ’62 vede protagonisti un fantastico Totò e una spalla, se possibile, ancora più sorprendente rappresentata da NinoTaranto e pur raccontando una storia di per sé molto semplice e anche banale se volgiamo, è condita, arricchita e impreziosita dalle innumerevoli gag del duo comico che ne fanno un capolavoro di comicità.
Antonio Peluffo (Totò) e Camillo (Nino Taranto), mettendo a profitto l’abilità di trasformisti appresa sui palcoscenici d’avanspet-tacolo, vivono ricorrendo a mille e mille espedienti, sempre ai margini dell’illegalità e sempre col timore che Armando Malvasia, ex compagno di scuola di Antonio ed ora commissario di polizia, finisca per coglierli con le mani nel sacco.
Antonio è truffatore non per vocazione ma per affetto paterno: mantiene infatti sua figlia Diana (Estella Blain ) in un collegio di prim’ordine, all’oscuro delle attività truffaldine del padre.
Un giorno la ragazza, stanca della disciplina, fugge dall’istituto e in un ritrovo notturno s’innamora di Franco, un giovanotto attorno al quale Antonio sta tendendo le sue reti.
Il truffatore ha però fatto un’infelicissima scelta: Franco, infatti, è il figlio del commissario Malvasia.
Tutto però si accomoda poiché il giovanotto, innamorato a sua volta di Diana, prende a benvolere anche il futuro suocero e lo aiuta a porre riparo all’ultima sua truffa.
La conclusione è delle più rosee. Un’insperata, cospicua eredità dà modo ad Antonio e Camillo di compiere l’ultima e più fortunata delle loro trasformazioni, tramutandoli in due autentici e spensierati milionari.
La pellicola, diretta da Camillo Mastrocinque, doveva in realtà intitolarsi Totòtruffa 61, l’anno di uscita dello stesso, ma siamo in un periodo storico ancora non così “libertino”e il rischio che qualcuno associasse la fatidica cifra “61” (legata al centenario dell’unità d’Italia e alle sue celebrazioni) alle truffaldine avventure di Totò e Taranto fece propendere per il titolo che tutti conosciamo.
Il film, a ben vedere, sembra quasi un agglomerato di gag ed equivoci, ma poco importa, se a capo di soggetti e sceneggiatura, ci sono due habitué come Castellano e Pipolo, che di risate, sono intenditori.
Inutile dire che in questo film si trova una delle scene madre del cinema di tutti i tempi, la vendita della fontana di Trevi allo sprovveduto turista americano Decio Cavallo
Totò si mostra nell’atto di riscuotere pagamenti da ognuno dei visitatori che circondano il celebre monumento romano (in realtà si avvicina chiedendo l’elemosina), incuriosendo un facoltoso turista americano che si avvicina chiedendo spiegazioni.
Totò dichiara di essere proprietario della Fontana di Trevi, e di esigere dai visitatori il giusto pagamento, poiché ognuno dei presenti sta guardando e fotografando un oggetto di sua proprietà. L’americano fiuta l'”affare”, cadendo nel tranello dei due compari.
“Senti, io sò italiano oriundo, ho lasciato l’america definitivamente e mi voglio stabilì in Italia, ma vado in cerca di un buon business sà..” – “E perchè non ti compri la fontana mia?” – “E tu te la vendi?” – “Eh si, una volta mi devo ritirare, i dolori reumatici, vicino all’acqua” – “Allora la compro io! Dimmi un pò paisà, quanto costa la funtana?” – “Ma tu pagheresti subito?”
L’episodio è spassosissimo, per l’assurda semplicità dello sprovveduto uomo d’affari americano, convinto che la Fontana di Trevi, uno dei principali monumenti simbolo della città di Roma, potesse essere messo in vendita.
La Fontana di Trevi, lo sappiamo ha una lunghissima storia che risale ai tempi dell’Imperatore Augusto e al completamento dell’Acquedotto Vergine.
Nei secoli è stata più volte rimaneggiata passando anche per le mani di Gian San Pietro e Duomo: Bellezza oltre il tempo che per poco non riuscì a vedere finita la sua opera. Per ammirarla nel suo aspetto attuale bisognerà attendere il lavoro di un romano molto poco conosciuto, Nicola Salvi, che inizia il lavoro nel 1733. La gloria immeritata della fine dei lavori, va comunque a Giuseppe Pannini quando nel 1762 viene inaugurata da Papa Clemente XII.
Questo breve exursus artistico, ci offre un interessante spunto per notare un errore storico che è stato commesso nel film.
Quando infatti Decio Cavallo consulta la guida turistica che ha con se per vedere se quello che afferma Totò (ossia che la fontana è stata realizzata da uno scultore svizzero incaricato dal bisnonno del principe De Curtis e che quindi la fontana appartiene alla famiglia di quest’ultimo da lungo tempo), legge che la fontana è stata realizzata da Bernini.
In realtà’ però la fontana di Trevi è stata per l’appunto realizzata da Nicola Salvi circa 50 anni dopo la morte del Bernini, mentre un’altra leggerezza relativa sempre a questa scena, riguarda il fatto che, quando vigili credono che Decio Cavallo sia matto perché convinto di aver acquistato la fontana, vogliono chiamare l’ambulanza, il suono delle sirene si sente prima che i vigili la chiamino.
A parte tutto però, diciamo la verità, una scena del genere, che tiene lo spettatore incollato alla sedia, perennemente divertito, è davvero rara, i dialoghi sono incalzanti e ben studiati, con battute esilaranti, tipiche della commedia degli equivoci.
Totò e Nino Taranto sono un trionfo di personaggi e travestimenti, ecco allora un’altra fra le battute più celebri del Principe della risata:
“Lei con quegli occhi mi spoglia! Spogliatoio!”.
La celebre battuta è una delle più amate dagli ammiratori di Totò, che per buggerare il padrone di casa si traveste da ammaliante, ed improbabile direi, donna.
a proposito di questa scena, lo stesso Taranto ha ricordare un simpatico aneddoto:
“Totò voleva che gli dessi del tu, io non ci sono mai riuscito… Diceva: «Ma perché, non capisco, ti sono antipatico?» E io gli rispondevo: «No… anzi se fossi una donna mi sarei dato a voi con tutto il cuore senza pensarci su nemmeno una volta… ». Quando capitò che in Totòtruffa 62 facemmo quella scena in cui me lo vedevo sbucare vestito da donna mentre io ero truccato da marito siciliano, finimmo le riprese e lui disse: «Beh adesso sono femmina ne puoi approfittare». «No, così no» gli dissi e lui se la legò al dito.”
Totò-Lola è addirittura diventa un murales nei Quartieri Spagnoli di Napoli dove, in via Portacarrese, l’ha ritratta come in un’istantanea.
Totò si tinge la faccia di nero, e diventa ambasciatore del Ghana, promettendo ai mal capitati un’eredità fasulla.
Fasulli invece non sono per niente gli strani nomi che Totò pronuncia
“Pronto, parlo con casa Wubu?”…mò butu”
storpiatura in un improbabile congo-napoletano di “…ora butto (la pasta)” ma in realtà nomi di veri politici congolesi dell’epoca.
Ultima trovata dell’eccentrica coppia, prima di essere acciuffati e arrestati da Malvasia, travestirsi da Fidel Castro e signora; stranamente, nel frattempo, anche la bella e sensuale Diana, si mette nei guai: è stata infatti punita per essere scappata di notte per andare in un locale notturno.
Ed è proprio in quel locale notturno che si esibiscono il cantante Wee Willie Harris e la sua band nel ruolo di loro stessi, un ingaggio davvero importante per un film di quegli anni, dato che era un gruppo all’epoca molto famoso ed ammirato addirittura dai Beatles.
In tutto questo bailamme di travestimenti, imbrogli e risate, si inserisce, sullo sfondo, la storia d’amore fra Franco e Diana, un sentimento puro e sincero che stona un po’ in mezzo a tanta disonestà.
“Lo so, dovrei lavorare invece di cercare dei fessi da imbrogliare, ma non posso, perché nella vita ci sono più fessi che datori di lavoro.”
Dice Antonio, ed è una frase che fa molto riflettere, ma quando viene a sapere che sua figlia è innamorata di Franco, non esita un attimo, e per non darle un dispiacere decide di presentarsi dal commissario per dirgli che è stato lui a truffare suo figlio, e che lo stesso e Diana si amano.
A questo punto, una considerazione andrebbe fatta, e riguarda la vita privata del Principe, della quale molto potrete scoprire leggendo il Ritratto di un attore a lui dedicato (Ritratto di un attore: Totò). L’aver scelto il nome di Diana per rappresentare un affetto così importante, non può essere un caso.
Diana Rogliani era infatti il nome della prima moglie di Totò, probabilmente quella che amò profondamente fino alla fine dei suoi giorni, che gli è stata accanto, nonostante tutto, fino alla fine e che sposò nel 1935 e che incontrò mentre era in tournée alle Follie d’estate di Firenze.
Diana Buffardi De Curtis è anche il nome della nipote di Totò, figlia di Liliana che nei primi anni della sua vita ha profondamente odiato il nonno, perchè se ne vergognava; un giorno però, in occasione di un viaggio, scoprì una persona buona, affettuosa e molto generosa, che divenne il suo “nonnino” adorato.
Parliamo naturalmente di un film, e come in ogni bella storia che si rispetti , alla fine, si trova sempre il modo per scrivere un degno e roseo lieto fine… ma come sarebbe bello se, anche nella realtà, ognuno poteva scrivere il suo .. . Fosse Anche Quello di trascorrere tanto, tanto tempo, Nella bella Piazza San Marco, un Contare i piccioni.