Oggi vi porterò a teatro, si avete capito bene, a teatro; vi parlerò di una commedia in tre atti, vi parlerò di Felice lo scrivano e di Pasquale il fotografo, di equivoci, bugie, espedienti e scene al limite della realtà che vi faranno so-rridere di gusto.
Vi farò conoscere la ricchezza e la povertà, l’arte dell’arrangiarsi e quella dell’ostentazione, vi parlerò di Miseria e nobiltà.
L’opera teatrale composta nel 1887 da Eduardo Scarpetta, vede il protagonista, Don Felice Sciosciammocca interpretato dallo stesso Scarpetta.
Il 17 aprile 1954 esce a Torino, Miseria e nobiltà, capolavoro assoluto della commedia italiana, tratto dall’omonima opera teatrale, diretto da Mario Mattoli.
Mattoli è un vero ammiratore di Scarpetta, infatti, Miseria e nobiltà è, nel 1954, una delle tre trasposizioni cinematografiche di altrettante commedie di questo grande autore del passato.
Lo stesso anno, insieme a questo film, usciva Il medico dei pazzi, mentre di una anno precedente è Un turco napoletano (di cui vi parlerò in altri articoli).
https://www.youtube.com/watch?v=odvofoOsBpI
Questa pellicola, a colori, oltre che vedere Totò nei panni dello scaltro Felice, vanta un cast d’eccezione: Dolores Palumbo è la sua compagna, Luisella, e Enzo Turco il suo compare Pasquale mentre Gemma la ballerina è interpretata dalla grande Sophia Loren.
L’intento di Mattoli, è quello di non modificandone per nulla la trama, vuole solo realizzare una versione più leggera e fresca rispetto alla commedia di Scarpetta.
La versione cinematografica si discosta infatti di poco dall’originale teatrale, sono aggiunti il personaggio di Nadia la modista piemontese interpretata da Franca Faldini, le scene all’interno del Teatro San Carlo e alcuni sketch di Totò come quello della macchina fotografica con i due sposini e la lettera del cafone senza soldi; altre scene come quella degli spaghetti invece, sono vere e proprie improvvisazioni nate sul momento dal genio del Principe De Curtis, ma ne parleremo dopo.
La storia è ambientata nella Napoli di fine ‘800, dove in una bicocca convivono litigiosamente le famiglie di Felice Sciosciammocca (Totò) , scrivano squattrinato e di don Pasquale (Enzo Turco) che invece fa il fotografo ambulante, anche lui poverissimo. Entrambi lavorano vicino al Teatro San Carlo ma i loro guadagni non gli consentono di sopravvivere; per questo i due convivono insieme con le rispettive famiglie in affitto (che non pagano da mesi).
La loro vita è certamente molto difficile; la mancanza di cibo e soldi li costringe a dare in pegno indumenti e piccoli oggetti di valore per avere in cambio denaro.
La convivenza inoltre non è facile, in casa ci sono: Luisella (Dolores Palumbo) che è la compagna di Don Felice, Concetta (la moglie di don Pasquale) e Pupella (figlia di don Pasquale e Concetta).
Donna Luisella ha un brutto carattere; è un’attaccabrighe, provoca spesso Concetta causando litigi e malumori in casa e maltratta Peppiniello, il figlio di Don Felice avuto da un precedente matrimonio.
Un giorno però, alle due famiglie si presenta un’occasione d’oro: il marchesino Eugenio vorrebbe sposare Gemma (Sophia Loren), una famosa ballerina, ma i suoi genitori approvano il matrimonio. Il padre di Gemma però, tale Gaetano Semmolone, acconsente alle nozze, solo se anche i genitori di Eugenio acconsentono.
Così il marchesino propone a don Felice e don Pasquale di fingersi suoi parenti e di accompagnarlo, travestiti da nobili, dal Sig. Gaetano Semmolone, cuoco arricchito e padre della ragazza, per chiedere la mano della figlia Gemma.
Nel mentre si scopre che il fratello di Gemma, Luigino, interpretato dal grande e compianto Carlo Croccolo, corteggia la figlia di Felice, Pupella (Valeria Moriconi) generando altri equivoci.
Nel giorno concordato, i finti nobili si presentano a casa di Don Gaetano. Tutto sembra procedere come previsto finché alla porta bussa Luisella, l’unica che era stata esclusa dalla recita.
Chiunque abbia più di 30 anni, credo, conosca questo film, perché ha avuto la possibilità di vederne anche solo una scena o magari perché ne ha sentito parlare.
Già, perché molto spesso sono quelle poche scene azzeccate e particolari che restano nell’immaginario collettivo e consentono ad un film di essere ricordato, ricercato, rivisto.
In questa pellicola, direi, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta; è tutto un susseguirsi e un crescere di scene esilaranti, grottesche, comiche.
Il film ci mostra, nelle prime scene, Felice che indossa una camicia senz’altro alla moda nel suo ambiente povero ed essenziale, composta solo dalla parte davanti, quella, per intenderci, che si vede e che si mostra al pubblico.
Proseguendo altre due scene, a poca distanza l’una dall’altra, sono sicuramente poco scontate e ricordate da molti, quella della dettatura della lettera da parte di un poveruomo analfabeta, in un dialetto quasi del tutto incomprensibile:
“Caro Giuseppe cumpare e nepote”
“…nun teng’ manc li soldi per pagare la lettera a lu scrivano che me sta scrivendo la lettera presente…”
e quella della vendita del paltò di Felice per fare la spesa, ma troppo modesto per poter comprare tutto quello che c’e nella lista dettata a Pasquale, manco fosse il “Paltò di Napoleone”.
Indimenticabile è anche la scena dei gelati, divorati dai finti nobili come se non li avessero mai mangiati prima, ma anche quella della lite finale tra Luisella e Concetta con la frase/offesa:
“Uè, funicolare senza corrente”
La sceneggiatura è piena di frasi, quasi ritornelli che ci rimbombano in testa e sono entrati a far parte del linguaggio comune..
“Io non faccio il cascamorto; se casco, casco morto per la fame”;
“Qui si mangia pane e veleno. Pasquà, qua si mangia solo veleno!”;
“Vedi se è buono, sennò desisti!”
e soprattutto una di enorme impatto pronunciata da Felice/Totò:
“La vera miseria è la falsa nobiltà”.
Scambi di battute al limite della realtà, come quelle tra Felice e Pasquale nei confronti della vicina di casa piemontese:
“A casa nostra, nel caffellatte non ci mettiamo niente: né il caffè, né il latte.”
“no da noi invece, tutto con l’olio…vede…anche le macchie ce le facciamo con l’olio”
O ancora quelle in casa del cuoco:
“Cara nipote! Noi ti accoglieremo nel seno della nostra famiglia e tu accoglici sul tuo…”
”…Ma chi le ha viste mai [600 mila lire]? No, dico chi le ha viste mai in contanti, perché noi adopriamo gli cheque, e lui lo sa: ogni cheque è così”
Il Principe di Casador, questo il titolo nobiliare affibbiato a Don Felice, ci appare perfettamente a suo agio in questo ruolo, soprattutto perchè la posta in gioco, è piuttosto alta…colazione pranzo e cena pagati per due anni. Non gli sembra quasi vero!
Buffi comportamenti ci sono rimasti impressi, come il furto delle posate d’argento che poi cascano dalla tasca di Pasquale o Felice che, per conformarsi al mondo dei ricchi, mangia il pollo con i guanti, e nella foga si addenta un dito; e non solo, non intende proprio lasciarlo quel pollo, vuole divorarlo tutto, perchè chissà quando potrà ricapitare…
Ho volutamente lasciato da parte due scene particolari, che mi stanno molto a cuore e che da sole raccontano una storia: quella degli spaghetti e quella del tormentone
“Vincenzo m’è padre a me”
La famosa gag degli spaghetti, dove in una povera stanza un cuoco apparecchia la tavola con piatti e posate di pregio e al centro mette una pirofila di porcellana piena di spaghetti al pomodoro, quella dove Don Felice, don Pasquale e tutti i familiari affamati assalgono letteralmente la tavola mangiando addirittura con le mani mentre don Felice, il grande Totò, se li mette perfino in tasca, sembra infatti sia stata totalmente improvvisata.
In proposito, lo stesso Mattioli ha dichiarato:
“A nessun altro sarebbe venuto in mente di arrivare all’intervallo su quella scena degli spaghetti in tasca. A nessuno. E si poteva fare solo al cinema, perché a teatro non si sarebbe capito niente”
Ma c’è di più; sembra infatti che quell’idea di mangiare con le mani in assenza di posate, al principe della risata sia stata ispirata da una vicenda che visse in prima persona.
Erano tempi in cui la guerra (1946) aveva lasciato macerie e desolazione. Il popolo, con il morale a terra, riusciva tuttavia a ritrovarsi nell’allegria di quei “matador” che a Napoli quasi veneriamo come Nino Taranto, i De Filippo e naturalmente Totò, che nel teatro Orfeo, ad un prezzo ridottissimo, si esibivano per dare un po’ di speranza al popolo. Un bel giorno, prima di esibirsi, Totò era affamato.
Leggenda vuole avesse saltato il pranzo e così chiese ad un collaboratore di portargli in fretta e furia un piatto di spaghetti per non esibirsi sul palco a stomaco vuoto.
In meno di un quarto d’ora il pranzo arrivò a destinazione. Totò aprì quella ciotola di ceramica dove spaghetti caldi e fumanti probabilmente inebriavano tutto il camerino. L’odore di quella leccornia aumentarono l’appetito dell’attore che nel tovagliolo cercò invano le posate. Con tutta probabilità Totò, da buon napoletano, fu costretto ad arrangiarsi e a mangiare con le mani anticipando così la famosa scena.
Ma c’è di più. Dalle parole di alcuni testimoni, sappiamo anche che fu una scena che stava andando per le lunghe, facendo diventare la pasta fredda e scotta.
“Allora Totò cosa si inventò? Mise sotto la pasta sigarette che producevano il fumo. Poi salì sul tavolo e si sporcò tutto il vestito, facendo infuriare la costumista. E consegnando una scheggia di capolavoro alla storia del cinema.”
Durante un’intervista di qualche anno fa invece Franco Melidoni che nel film interpretava Peppiniello, ha svelato tante curiosità legate proprio al suo personaggio e a quella cantilena
“Vincenzo m’è padre a me”
“Fu Franco Sportelli, il maggiordomo, a suggerire di insistere su quella frase, ed ebbe ragione”.
Racconta. E ancora:
“Totò era come un nonno. Anche se aveva 56 anni, ne dimostrava qualcuno in più, aveva già problemi agli occhi. I ciak per le luci li faceva sempre una controfigura. Sul set arrivava quasi in punta di piedi, già truccato e preparato da casa. E poi diventava un fuoco di artificio, quello che si dice sulla sua capacità di improvvisazione è assolutamente vero .
L’abilità della spalla doveva essere quella di seguirlo nei suoi voli funambolici. Ed era sempre buona la prima, poi si girava una seconda scena per sicurezza ma non serviva quasi mai…”
“…Mi ricordo tutto come se fosse ieri. Soprattutto lo schiaffo che mi diede la Palumbo…» «…Sì, perché nella scena in cui dico che me ne vado dal mio compare perché nessuno mi vuole bene, non riuscivo a piangere… Mi misero anche delle gocce negli occhi ma niente. Così lei disse: ci penso io e mi mollò un ceffone. Che funzionò”.
Quel bimbo magrolino e dall’aspetto emaciato e trasandato alla fine del film rappresenta l’anello di congiunzione fra i due mondi, quello della miseria e quello della nobiltà.
Anche il film si gioca tutto sull’equilibrio fra questi due mondi che si scontrano, ma che alla fine si mescolano e ribaltano, mostrando l’estrema decadenza del secondo, debole quanto e più del primo che si diverte a scimmiottarlo (sottolineandone limiti e punti deboli) con addosso baffi finti e vestiti lussuosi.
Le ipocrisie e l’arroganza dell’alta borghesia sono messe alla berlina e sbeffeggiate da Felice e Pasquale, che per racimolare qualche soldo, o semplicemente per mangiar”, mettono sul piatto simpaticamente e simbolicamente anche la propria dignità, dando vita ad una delle farse entrate di diritto nella storia del cinema.
La prima parte del film è tutta orientata a inquadrare la miseria dei personaggi, splendida la scena dei camerieri che pian piano portano ricche pietanze grazie alla generosità del corteggiatore della figlia del fotografo e anche il magnifico duetto tra Turco e Totò che umilmente fa da spalla e immagina tutto quello che Felice di acquistare con il suo paltò.
La fame quindi, ma anche la scarsa considerazione verso l’infanzia sono le tematiche affrontate nella prima parte, tant’è che Peppiniello veste di stracci, è maltrattato dalla matrigna ed è infine costretto a trovarsi un mestiere pur di poter mangiare.
La seconda parte invece introduce il mondo dell’aristocrazia e della nobiltà, e insieme quello della falsità e dell’ipocrisia. Il Cavaliere Semmolone, in realtà, è un cuoco arricchitosi grazie al lascito del suo padrone, ma è un sempliciotto, un bonaccione, per il quale imparentarsi con la nobiltà rappresenta un vero terno al lotto…
“Io volevo dirvi semplicemente che sono commosso, commosso per aver conosciuto una famiglia tanto lustra e illustrata…”
In soli 95 minuti, Mattoli ha saputo dar vita sul grande schermo ad una delle opere più divertenti di sempre, prendendosi naturalmente delle licenze, ma mantenendo lo schema della rappresentazione teatrale. Grazie alla fenomenale sceneggiatura scritta da Ruggero Maccari, Miseria e nobiltà è un incessante susseguirsi di gag al fulmicotone, intelligenti, mai volgari, costruite per creare equivoci e fare da cornice a situazioni al limite del surreale.
Il grande e inimitabile Totò era già stato nei panni di Felice Sciosciammocca nei film Un turco napoletano (1953), dove interpreta un evaso che assume l’identità di un turco che aveva rapinato e ne Il medico dei pazzi (1954), dove l’uomo è il sindaco di Roccasecca.
Qui in Miseria e nobiltà il personaggio raggiunge l’apice massimo della comicità coadiuvato ovviamente da altre grandissime stelle del panorama cinematografico italiano che sono spalle ma anche personaggi a tutto tondo, mai nell’ombra.
E’ importante ricordare Gianni Cavalieri, nei panni del ricco cuoco Don Gaetano, padre di Gemma; Franco Sportelli, cioè Vincenzo, il maggiordomo; il fenomenale Carlo Croccolo, irresistibile nei panni di Luigino, fratello di Gemma e innamorato di Pupella, che se ne va in giro dando del “Bellezza Mia!”a tutti quelli che gli si palesano davanti e Giulia Melidoni, ossia Bettina, moglie di Felice e quindi mamma di Peppiniello.
La loro alchimia, il loro talento, il fatto di incastrarsi alla perfezione non hanno eguali e mantengono la stessa freschezza, lo stesso smalto e magnetismo di un film girato pochi anni fa, invece di dimostrarne ben 65. Questa è la magia che solo i grandi e inossidabili capolavori sanno creare, qualcosa di raro al giorno d’oggi.
Quelle che vediamo sulla scena, seppur surreali e al limite della realtà alle volte, sembrano momenti reali della vita di una piccola comunità, spaccati di vita vissuta, povertà vera, ricchezza finta per davvero.
La critica tuttavia, non era sempre benevola nei confronti del Principe, perché anche se è vero che nella prima metà degli anni cinquanta, Antonio De Curtis è ormai un divo affermato del cinema comico, e i suoi film attirano migliaia di spettatori, è anche vero che, quella stessa critica, lo apprezza come comico, “quello che fa ridere” ma lo disprezza come attore.
Molte volte le sue pellicole vengono stroncate senza che l’autore dell’articolo abbia effettivamente visto il film visto che al posto del titolare gli articoli delle pellicole di Totò li firmano i cosiddetti “vice”.
Qui Totò, con la regia di Mario Mattoli, onesto artigiano, direttore di diverse sue pellicole che in seguito tenterà la carta della commedia classica, porta sul grande schermo una commedia di Edoardo Scarpetta, attore e autore partenopeo nonché padre reale, ma non ufficiale dei tre fratelli De Filippo, e sembra che le farse di Eduardo Scarpetta siano considerate veicoli ideali per Totò e strumenti infallibili per incrementare i borderò.
Miseria e nobiltà a distanza di 65 anni, si dimostra un film estremamente moderno, che ricalca la società odierna, fatta di ostentazione e facciata e pochi contenuti e anche nella chiusa finale ci insegna qualcosa, perché alla fine, l’importante, è aver deliziato il pubblico:
“Torno nella miseria, però non mi lamento: mi basta di sapere che il pubblico è contento.”