Era da almeno vent’anni, da quando aveva letto la biografia di Julie Kavanagh Rudolf Nureyev: The Life, che Ralph Fiennes desiderava fare un film su Nureyev, affascinato da quell’uomo “che aveva in sé una sorta di divinità, pur essendo completamente umano“. Per far questo, e sopratutto per farlo bene, c’era bisogno di qualcuno che potesse sostenere il confronto con il Nureyev originale, qualcuno che non solo riuscisse a esprimere la stessa energia nel ballare, ma che riuscisse anche a rappresentare il Rudolf uomo, le sue parti più tormentate e fosche. Fiennes si affida a Oleg Ivenko, ballerino ucraino professionista alla sua prima esperienza cinematografica, che fa un lavoro egregio, aiutato anche dall’estrema somiglianza con il “tataro volante”.
Ralph Fiennes porta sullo schermo un biopic classico, costruito su più piani temporali – l’infanzia in Siberia, la formazione a Leningrado, l’evoluzione a Parigi- in cui si cerca di raccontare tutto, forse anche un po’ troppo. Un “troppo” però che è un eccesso di generosità e che è facile perdonare. Nureyev – The White Crow è un film in cui non sono tanto i dialoghi o la storia a parlare, quanto le scene, le immagini, le espressioni, gli sguardi e i colori. La regia è impeccabile e proprio da questa, e attraverso questa, voglio partire per recensire il film.
La fotografia è molto bella e di grande effetto. Ralph Fiennes gioca con i colori e con le sfumature, riuscendo non solo a raccontare una storia, ma a raccontarla dal punto di vista di Nureyev, sviscerando le sue emozioni. I ricordi dell’infanzia, della madre e della città natale sono caratterizzati da colori freddi, che sfumano dal grigio all’azzurro ghiaccio, e che evocano le atmosfere gelide della Siberia e i sentimenti contrastanti di Rudy per il suo paese, che ama ma da cui deve allontanarsi per poter vivere e sentirsi libero, libero di conoscere e di esplorare, ma anche libero di esprimersi come vuole lui. Anche i dialoghi si fanno essenziali e tanto ci viene comunicato attraverso gli sguardi, quelli che si scambiano madre e bambino, intensi, che cozzano con la rigidità dell’ambiente e con l’immagine di Nureyev che ci viene data per il resto del film. Proprio attraverso i ricordi del sé bambino riusciamo a crearci un’immagine di lui a tutto tondo, non solo Nureyev, il ballerino eccezionale e geniale, tenace e pronto a tutto pur di arrivare dove vuole, ma anche Rudy, più debole, triste, legato a un ricordo di un paese che non riesce a lasciar andare del tutto e all’amore per una madre che non rivedrà più. La Leningrado degli anni ’40 è un ambiente asettico, dipinto con tinte cupe e anonime. Le inquadrature si fanno geometriche, quasi schematiche, e la camera indulge molto sulle lunghe ore di allenamento, i metodi rigidi degli insegnanti a cui si contrappongono i movimenti flessuosi dei ballerini. E’ qui che compare Ralph Fiennes, nel ruolo del maestro di danza Alexander Pushkin, un ruolo piccolo, ma che dona a The White Crow una profondità nuova. Pushkin è un personaggio che potremmo definire anomalo per l’ambiente in cui si trova, che prende le distanze dalla rigidità degli insegnamenti convenzionali, ma che si allontana anche dalla personalità istrionica di Nureyev. E’ un personaggio positivo, il primo che non solo riconosce il talento del ballerino, ma che riesce anche a potenziarlo, facendo delle sue imperfezioni non una debolezza, ma un punto di forza. Così come succedeva con la madre, anche attraverso Pushkin si rende più accessibile il personaggio di Nureyev, che diventa più complesso e complicato, che comincia a formarsi e a crescere. Arriva poi Parigi. Parigi è luminosa, brillante; è una città che rispecchia il vero spirito di Nureyev, dinamico e vitale. Parigi è grande, Parigi è sfavillante, Parigi è arte ed è bellezza. Anche le inquadrature si fanno più ampie, la città si innalza, si fa imponente, così come Rudolf Nureyev, che scopre i jazz club, la vita notturna, i musei, le più grandi opere d’arte, tra cui la maestosa Zattera della Medusa, che domina la sala del Louvre. E’ attraverso la conoscenza, la brama di sapere, di vedere, di scoprire che non solo si arricchisce la personalità di Nureyev, ma anche la sua danza, che ne esce potenziata. Molto suggestivi i primi piani sui dettagli del dipinto, che vengono poi ripresi e riprodotti nelle scene successive dei balletti e che riassumono attraverso le immagini ciò che il ballerino dice a parole: “Io ho un dovere. Vedere tutto ciò che posso, imparare. Picasso, Matisse, Rodin. Ogni giorno dei nuovi dipinti, per guardarli, guardarli davvero, capire cosa insegnano. E’ vitale per la danza“.
Si arriva poi al 1961, l’anno della diserzione, momento tragico nella vita del ballerino. Qui il film prende una piega totalmente diversa; il ritmo si fa più serrato, vengono lasciati da parte i silenzi, le sfumature, i dettagli e si rompe quel sentimento di straniamento che era stato tenuto magistralmente in piedi per tutta la durata del film. Forse per questo il finale risulta la parte più debole, più “cinematografica” e convenzionale, tanto da far sembrare la pellicola un thriller politico che poco ha a che vedere con l’impostazione del film. Il divario ideologico tra ovest ed est è uno dei temi più interessanti e onnipresenti nel film e viene spesso ben approfondito da alcuni dialoghi tra il ballerino e gli amici di Parigi, ma va a perdersi proprio nelle scene decisive. Va a perdersi anche quello che era lo spirito più ribelle e rivoluzionario di Nureyev, che non riguardava soltanto la danza e la volontà di piegare “la tradizione”, ma anche la sua vita privata. Per la prima volta, nel film si dà più importanza all’azione piuttosto che al personaggio e al suo Io, che si erge egocentrico per tutta la durata della pellicola; una scelta che è andata un po’ a sminuirne l’impatto. Ma questo forse è perché di Nureyev ho sempre ammirato il coraggio di una scelta simile, quella di abbandonare per sempre il proprio paese e tutto ciò che il proprio paese rappresenta.