Che abbia un debole per Woody Allen, ormai, mi pare più palese dell’aeroporto di Bari. È una passione che condivido col giornale più importante di Spagna, El País, La Repubblica spagnola. Di lui e dei suoi casi abbiamo già parlato diffusamente: Scarlett Johansson difende Woody Allen, Il libro nel cassetto di Woody Allen, Amazon Studios non distribuisce l’ultimo film di Allen etc. Ora vorremmo condividere l’intervista che ha rilasciato al quotidiano spagnolo El País in questi giorni, approfittando del fatto che il regista sta terminando di girare il suo ultimo film, Rifkin’s Festival, a San Sebastián. Per un’ora il fortunato giornalista del País ha parlato con Woody della vita, della morte, del sesso, del fallimento, della nostalgia, di Bergman, di Shakespeare e di Trump. Lo proponiamo anche perché le domande riescono ad andare oltre alle solite banalità.
Perché adora i giorni di pioggia? Perché sono meglio i cieli plumbei di quelli assolati?
Perché la luce è migliore. E perché credo che in quei giorni la gente pensi più dalla sua interiorità, dalla sua anima. La mia è un po’ triste… e se apro la finestra al mattino e c’è il sole, mi disturba. Al contrario, trovo che le città siano bellissime sotto la pioggia. Parigi, Londra, New York, San Sebastián sono già bellissime, ma se piove sono magiche. A San Sebastián, per esempio, il clima è una benedizione; l’inverno sembra primavera. E piove. Nei miei film le cose importanti succedono quasi sempre quando piove. Anche se poi ci si lamenta che costa caro girare con la pioggia; soprattutto perché quando voglio girare con la pioggia, quasi mai piove e dobbiamo farla artificialmente. Io a volte chiedo a Dio che faccia qualcosa, invece nulla, nemmeno una nuvola.
Vedendo il giovane protagonista di Un giorno di pioggia a New York, non si può evitare di pensare al giovane Woody Allen che scopre Manhattan… C’è un po’ di nostalgia in questo film?
Certo che c’è, questo film ne è pieno, come in tanti altri miei film.
La nostalgia, questo mostro o la nostalgia, questo balsamo?
La nostalgia, questa trappola. Camus la descrive come una trappola seduttrice e io ci casco costantemente, soprattutto quando parlo di New York. Quando ero bambino era una grande città e direi che lo è stata fino alla fine degli anni ’50. Poi ha cominciato a modernizzarsi in un modo che non mi piace molto. Posti nuovi e brutti occupano il posto di luoghi antichi e deliziosi, negozi di dolciumi che spariscono, il traffico che ha cominciato a diventare caotico e, dopo un certo tempo, molta delinquenza. E oggi la piaga sono le biciclette: vanno sui marciapiedi, passano col semaforo rosso, è una follia. Insomma, New York non era così.
In questo film c’è un regista che non vuol finire il suo film, uno studente che non vuol continuare l’università e un giovane che non si vuole sposare… Sembra un film infestato dal Bartleby di Melville: “Preferirei non farlo”
È vero, è così; strano che non ci abbia pensato. Il protagonista, Gatsby, vuol fare quello che gli piace, non quello che gli chiedono i genitori, studiare, essere elegante e tutte queste cose. O meglio, effettivamente, “preferisce non farlo”. Preferisce essere un giocatore o suonare il piano di notte nei bar pieni di fumo. Negli Stati Uniti non c’è tolleranza dinanzi al fallimento.
Direbbe che osservare e dissezionare personaggi in crisi come questi è una delle specialità della casa Allen?
Certamente. È necessario per il dramma. Personaggi in situazione critica. Quando si guarda un western, un film di gangster o qualsiasi tipo di film emozionante ci sono persone in crisi; tirano fuori le pistole, scappano dalla polizia, soffrono… Lo stesso i miei personaggi; hanno sempre una crisi emotiva. I personaggi che non ce l’hanno per me non sono né interessanti, né divertenti. Non m’interessa la gente normale, m’interessa la gente con problemi, soprattutto emotivi.
Per esempio gente angustiata dai dubbi in un mondo pieno di certezze?
Certamente.
Perché crede che il dubbio, per non dire l’errore, manca di prestigio? Non crede che questo abbia un impatto negativo sull’educazione dei nostri bambini?
Certamente, e questo sì che lo conosco bene. È di più: oggi stiamo assistendo alla morte dell’artista. Questo è triste. L’artista oggi ha paura ad arrischiarsi a fare quello che fa e quello che dice per paura delle conseguenze. Purtroppo, nel mio paese, se fallisci non hai molto margine. Negli Stati Uniti non c’è tolleranza di fronte al fallimento. Ed è terribile da insegnare ai bambini. Bisogna essere disposti a fallire nella mia professione. Ti prosciugheresti come essere umano se vivi tutta la tua vita col timore di fallire. È un modo terribile di vivere.
Considera che questa situazione è peggiorata negli Stati Uniti ora che il paese è guidato da uno squalo degli affari?
È evidente che al presidente non piace fallire, né riconoscere i propri fallimenti. Ma, in generale, è un sintomo chiaro della cultura di questi tempi. Nessuno vuol dire qualcosa come ‘Ho avuto un’idea, ma non era una buona idea’. E questo non aiuta l’uomo nella vita quotidiana, né gli artisti, né i bambini, né il presidente. Il fallimento è degradante, è un peccato.
Donald Trump compare in una scena del suo film Celebrity. Lo scritturerebbe ancora?
Devo dire che fu un buon attore. È venuto, sapeva i dialoghi, sapeva muoversi, fu molto teatrale, per nulla timido. Come attore molto bravo. Come presidente, diciamo che è un po’ diverso; un paese non è un teatro. Ma mi piace pensare che l’ho avuto come subordinato.
Fra ottimismo, pessimismo e realismo Lei dove si colloca, e dove crede che stia il suo cinema?
Il pessimismo e il realismo sono la stessa cosa. Io sono molto pessimista sul mondo, sul futuro, sulla società, sull’esistenza, ma credo che il mondo sia proprio così, quindi penso di essere realista. In tutta onestà, non rimane altro che essere pessimisti.
Non crede che questo punto di vista possa pregiudicare il contenuto dei suoi film?
Credo di sì. Quando feci La rosa purpurea del Cairo mi chiamarono i produttori e mi dissero: “Guarda, lo abbiamo proiettato a Boston e a tutti è piaciuto da morire. Però, se cambi un po’ il finale per farlo un po’ più ottimista, guadagneremmo molto di più”. Ovviamente non lo feci, perché tutto il film era girato per quel finale.
L’ironia è una delle armi più potenti nel suo cinema. Ma non crede che sia in disuso o, almeno, minacciata dagli aggiustamenti ‘politici’ e capìta sempre meno?
Una grande parte del pubblico vuole messaggi molto chiari: a cosa ti riferisci, cosa difendi… ma c’è anche chi – molto pochi – è molto sofisticato e non si aspetta che abbandoni l’ironia. Grandi registi, di tutte le generazioni, come Buñuel o Bergman, hanno avuto un buon pubblico, non troppo, ma buono, anche se i loro film sono complessi e molto astratti.
E Lei fa cinema per questo tipo di pubblico?
Sì. Ho sempre dato per scontato che il mio pubblico sia intelligente almeno quanto me, se non di più. Da quando mi cacciarono dalla scuola cinematografica ciò che essenzialmente ho fatto sono film che a me sarebbe piaciuto vedere. Mi piacciono i film di Bergman, di Truffaut, di De Sica, di Antonioni. È il cinema che mi piace vedere, così cerco di fare film così.
Mi chiedevo, vedendo Un giorno di pioggia a New York, come fa a fare film apparentemente semplici di trama con un fondo tanto complesso. Quando scrive e quando gira, è più difficile aggiungere o togliere?
È più difficile aggiungere. Creare qualcosa è molto difficile. Beh, se uno ci è abituato non tanto. Ci sono persone che sanno disegnare in maniera geniale, fanno un disegno perfetto di un cavallo. Io non lo so fare, ma loro ti dicono che è facilissimo. A me succede lo stesso per i film: posso farli; la gente le vede e dice, ‘come deve essere difficile’, ma se ti dedichi specificatamente a quello non lo è.
La realtà è troppo triste e troppo dura, per questo continua a inventare storie a 83 anni. Si riconosce in questo giudizio?
Certo, perché la finzione è molto meglio della realtà, non c’è paragone. La realtà è un incubo. La finzione si può controllare. Si può fare in modo che i personaggi siano tristi o allegri, si può mettere una bella musica, pensi all’effetto che fa in My Fair Lady; invece nella realtà non si controlla nulla. La protagonista di La rosa purpurea del Cairo è molto più contenta nella finzione che nella realtà. Purtroppo, non si può vivere nella finzione o si impazzirebbe. Bisogna vivere nella vita reale che è tragica. Se potessi, vivrei in un musical di Fred Astaire. Tutti sono belli e divertenti, tutti bevono champagne, nessuno ha il cancro, tutti ballano; è fantastico.
La realtà non è stata particolarmente gentile con Lei, ultimamente.
[Woody Allen mi guarda con quegli inconfondibili occhietti fra il confuso e l’impaurito, da dietro gli occhiali dalla montatura nera, immortalati da decenni in fotografie, manifesti, magliette e libri].
Mi riferisco alle accuse di abusi sessuali fatti contro di Lei. Mi piacerebbe sapere che impatto ha avuto questa faccenda nel suo stato d’animo. Quando farà il bilancio della sua vita, quanto e come crede che peserà tutto questo?
Se mi guardo indietro, ricordo la mia vita e mi sento tremendamente fortunato. Lo sono stato sempre. Ho avuto un’ottima salute. Ho una donna meravigliosa. Figli. Un lavoro che mi piace, adoro fare film e opere teatrali. Suono con la mia Jazz band per tutto il mondo. Sono un fortunato e nulla ha ostacolato questa fortuna; nemmeno questa cosa che è successa, che è un errore e un’ingiustizia. È una situazione fuori della mia portata, così cerco di concentrarmi nel mio lavoro e nella mia famiglia. Ma questo non mi impedisce di pensare che la vita è un’esperienza triste.
È chiaro che vuol tornare al tema. Il pessimismo e il realismo.
È che, alla fine, tutti finiremo nello stesso posto, e questo è orribile. Nel mio film Stardust Memories tutti i treni avevano le stessa destinazione. Era tragico. Ma preferisco pensare di essere un fortunato. Ho sempre fatto quello che mi piace e, in più, mi hanno anche pagato.
Cosa è mancato per la felicità completa?
Felicità? Nessuno di noi capisce le circostanze nelle quali veniamo al mondo. La vita non ha senso. Si sa di dover morire. Che la gente che si ama deve morire. Non mi piace. Sta qui la felicità.
Tornando alle accuse di abusi, non sono state provate e Lei non è stato condannato.
[Di nuovo gli occhi di Woody Allen rimangono inerti e la sua bocca chiusa].
Non crede che siamo in una società nella quale, come già notava Kafka, comincia a sembrare obbligatorio dimostrare l’innocenza invece della colpa? E non mi riferisco solo al suo caso.
[Nuovo silenzio]
Allora cambiamo tema. Una volta lei disse a Richard Schickel, per il suo libro Woody Allen. A Life in Film, che non apprezzava particolarmente i suoi film. Non è facile crederle.
E invece ci può credere. Quando sono da solo in casa, mentre scrivo il copione, ho immagini fantastiche su quello che sarà il film. Poi lo faccio e tutto non va come dovrebbe. Non posso avere gli attori che vorrei. Le location che avrei scelto, nemmeno. Non ci sono abbastanza soldi. Commetto errori. E quando è finito tutto mi dico: “Ecco, è venuto il 20% di quello che avrei voluto fare“. A volte passi da credere di aver fatto Ladri di biciclette a sperare di non esserti reso ridicolo. In cambio, altre volte ci si avvicina di più. Quando ho finito Match point mi dissi: “Questo è abbastanza vicino alle mie intenzioni, è quello che volevo”.
E questo coincide con l’apprezzamento del pubblico?
No, spesso succede il contrario. A volte vedo un film terminato e mi dico che è pessimo, come mi è successo con Manhattan, che al pubblico piacque moltissimo. Altre volte arrivo a fare quello che mi ero proposto, e alla gente non interessa. Cose che succedono. Meglio non pensarci. Fai il film, lo fai uscire e pensi a quello dopo.
Che effetto le fanno parole come “posterità”, “eredità”, “impronta” o “memoria”?
Non mi interessa la mia eredità, non mi interessa che guardino ai miei film come un’eredità da custodire; quando non ci sarò più possono buttarli in mare. Una volta che sei morto, sei morto. È finita. Crede che quando avrò chiuso gli occhi mi importerà se la gente continua a vedere i miei film o no? Lo so, c’è a chi importa della posterità. A me no. E sono sicuro che anche Shakespeare la pensava allo stesso modo.
Insistere a scrivere e girare film, racchiude motivazioni terapeutiche o semplicemente si annoia se non lo fa?
Non mi annoio mai! Lo faccio perché c’è chi paga, chi li finanzia. E, finché ci sarà qualcuno disposto a finanziarmi, farò film. E quando mi diranno che sono terribili e che non me li finanzieranno più, mi deciderò a scrivere solo per il teatro. E se non funziona scriverò libri.
Nel suo nuovo film, uno studente di giornalismo fa questo elogio a un regista: “Lei non ha mai fatto concessioni al mercato”. È lei il regista? Non hai mai fatto concessioni al mercato?
Ho provato a non farle. Non penso da una prospettiva commerciale, penso solo a cosa sia bene per il film. Non faccio cinema pensando di compiacere il pubblico. Mi piace quando è contento, questo sì.
Come fa a trattare tanto e tanto intensamente il tema del sesso senza mai mostrare scene di sesso?
Non c’è bisogno di mostrare il sesso per parlare di sesso, come non è necessario mostrare la violenza per parlare di violenza. La violenza può essere artistica e drammatica, meravigliosa, pensi a Bonnie & Clyde. Il problema è che registi senza talento la portano a spasso di continuo e credono di essere Scorsese, peccato che non siano Scorsese. Lo stesso accade col sesso. Se lo esibisci, smette di essere drammatico. Io non voglio questionare sull’intelligenza del pubblico, do per scontato che sto parlando di sesso a gente intelligente.
Si direbbe che sia più difficile far arrivare messaggi profondi utilizzando la commedia che il dramma. Crede che sia così?
È difficile far arrivare i messaggi. Punto. Ma è ancora più difficile con la commedia. Molte volte, quando esce un film, mi chiedo: “Ma perché non sono riuscito a far arrivare il messaggio?” Non c’è risposta e forse ho fatto un film interessante e divertente, ma non ho tradotto il messaggio per il pubblico. E è sempre colpa mia, non sua. Divertire e far passare il messaggio a volte è solo appannaggio dei grandi. Bergman, per esempio.
Praticamente non ci sono commedie in concorso ai grandi festival, né agli Oscar. Perché?
Pochi autori possono fare bene la commedia. È un talento che scarseggia. C’è molta più gente capace di fare cose serie che commedie. E, naturalmente, l’impressione è quella che drammi e tragedia abbiano più sostanza della commedia. Poi, siccome fa ridere, per molti è difficile concedere alla commedia serietà e prestigio.